Questo articolo è stato pubblicato in origine dal quotidiano Il Manifesto
Per porre fine all’offensiva a Gaza, Israele riceverà ricompense politiche, come la ripresa dei colloqui la potente Arabia saudita finalizzata a un futuro trattato di pace – anche se Riyadh non è mai stata davvero in guerra con lo Stato ebraico -, la possibile normalizzazione con l’Oman e una storica dichiarazione siriana di «fine delle ostilità». È l’indiscrezione che circola sui media arabi a pochi giorni dall’incontro che Donald Trump e Benyamin Netanyahu avranno negli Usa per celebrare la «vittoria» sull’Iran e procedere, si dice, verso la fine dell’offensiva israeliana a Gaza. L’obiettivo di queste potenziali ricompense sarebbe anche quello di persuadere i ministri israeliani di estrema destra a non ostacolare la tregua permanente nella Striscia richiesta da Hamas per rilasciare gli ostaggi israeliani in cambio della scarcerazione di un numero cospicuo di prigionieri palestinesi.
Trump ieri ha ribadito che punta alla fine della guerra e intende ottenerla scavalcando le trattative indirette tra Israele e Hamas, mediate da Qatar ed Egitto. Netanyahu pretende tanto. Ha bisogno di proclamare di «aver schiacciato Hamas» a Gaza – le decine di migliaia di civili ammazzati non bastano -, ora che in Israele cominciano le manovre in vista delle elezioni politiche del 2026 che, con ogni probabilità, saranno anticipate a fine anno. Lui, nonostante i sondaggi siano incerti, ha intenzione di vincere di nuovo sulla pelle dei palestinesi. Ha bisogno anche di importanti successi diplomatici, ma Trump non può garantirgli la normalizzazione con Riyadh (che in cambio reclama la nascita di uno Stato palestinese), quindi lavora per arrivare subito a quella con la Siria. Con un decreto presidenziale lunedì ha regalato la revoca delle sanzioni economiche alla Siria al presidente post-jihadista Ahmad Sharaa. In primavera Sharaa aveva confermato i colloqui con Israele. Ora è disposto a percorrere gli ultimi metri.
L’accordo di sicurezza tra Israele e Siria sarebbe già pronto. La tv pubblica israeliana Kan riferisce che le due parti aggiorneranno i punti del Disimpegno firmato nel 1974 dopo la fine della guerra del Kippur/Ramadan; stabiliranno un coordinamento di intelligence contro Iran e il movimento sciita libanese Hezbollah; Israele riconoscerà la sovranità siriana delle Fattorie di Shebaa al confine tra i due paesi. Sharaa da parte sua non chiederà la restituzione delle Alture del Golan, un territorio siriano che Israele occupa dal 1967. Oltre a rinunciare al Golan, Sharaa sta rispettando l’intimazione ricevuta a maggio da Donald Trump di cacciare via da Damasco le organizzazioni palestinesi protette per decenni dagli Assad.
Israele, nel frattempo, ha occupato altro territorio siriano. Fonti nella Siria meridionale hanno detto al quotidiano libanese Al Akhbar che forze israeliane hanno stabilito una nuova base sulla collina orientale di al-Ahmar, nel governatorato di Quneitra. La collina è adiacente a una base israeliana costruita mesi fa sul versante occidentale della stessa cresta. Tra gli abitanti c’è il timore che si ripeta la distruzione di al-Hamidiyah, dove il 17 giugno le truppe israeliane hanno demolito 16 case. Israele ha anche iniziato a costruire un nuovo avamposto nei pressi di Bir Ajam e Saida al Golan. Le strade che collegano i villaggi all’interno della zona cuscinetto di Quneitra sono state distrutte, alimentando la preoccupazione che Israele intenda imporre confini di fatto. Gli abitanti si trovano di fronte alla scelta tra sfollare o vivere sotto occupazione.
A Damasco festeggiano la revoca delle sanzioni. Il ministro degli Esteri Asaad al Shaibani parla dell’inizio di una nuova era di «prosperità e stabilità». Sorridono anche i gruppi economici già forti sotto gli Assad e che ora offrono i loro servigi ai nuovi padroni di Damasco. Il «dittatore» Bashar Assad e la sua cerchia ristretta invece rimangono nella lista nera degli Stati uniti. Se il presidente deposto avesse firmato un trattato di pace con Israele rinunciando al Golan come fa Sharaa, oggi sarebbe ancora al potere. E l’Iran non sarebbe stato bombardato dagli Usa. Perché il Medio oriente è pieno di dittatori e regimi dittatoriali o autoritari. Non solo in Siria e Iran le carceri erano e sono colme di prigionieri politici. Accade lo stesso in Arabia saudita, Emirati, Bahrain, nel resto del Golfo, nella Giordania del «moderato» re Abdallah come nell’Egitto traballante di Abdel Fattah el Sisi. È sufficiente essere alleati degli Usa e cooperare con Israele per poter continuare a torturare ed opprimere indisturbati. E comunque anche le prigioni israeliane sono piene di prigionieri politici – migliaia non sono mai stati processati – definiti tutti indistintamente «terroristi», anche se hanno solo 15 anni e hanno lanciato un sasso.
Sharaa e i suoi alleati fanno come vogliono anche se Hay’at Tahrir a Sham, il gruppo qaedista guidato dal presidente autoproclamato è ancora sulla lista dei terroristi del Dipartimento di stato Usa. In Siria sono avvenuti massacri di civili nelle settimane passate – sulla costa mediterranea e nel sud druso – e i siriani alawiti vivono sotto la costante minaccia di miliziani spesso legati ai servizi di sicurezza statali. Stati uniti e Europa chiudono gli occhi pur di portare Sharaa a normalizzare i rapporti con Israele e a unirsi alla lotta all’Iran. Un’inchiesta della Reuters ha ricostruito lo svolgimento dei massacri della scorsa primavera – almeno 1500 morti – a danno della minoranza alawita (considerata «apostata» e alleata degli Assad) identificando una catena di comando che va direttamente dagli aggressori agli uomini che prestano servizio a fianco dei nuovi leader. L’inchiesta ha accertato 40 distinti luoghi di omicidi per vendetta, violenze e saccheggi. Intere famiglie sono comparse nelle liste dei morti scritte dai più anziani. Diversi sopravvissuti hanno descritto come i corpi dei loro cari fossero stati mutilati.
In questi giorni si cercano donne e ragazze, almeno 33, tutte rapite nei governatorati di Tartous, Latakia e Hama che ospitano un’ampia popolazione alawita. La scomparsa si accompagna a una richiesta di riscatto, ma non sono sequestri compiuti da criminali, avvengono per ragioni etniche e religiose. La polizia di Ahmad Sharaa ignora o minimizza, parla di «donne che fuggono con gli amanti». I centri per i diritti umani denunciano inoltre l’aumento degli arresti indiscriminati per motivi politici o per scarsa osservanza delle regole religiose. Europa e Usa, tacciono, fingono di non vedere e si preparano a celebrare la nuova «pace» in Medio oriente.