Dopo giorni di scontri sanguinosi nella provincia siriana di Sweida e una serie di attacchi aerei israeliani senza precedenti su Damasco e il sud del paese, le forze governative e le milizie druse hanno concordato un nuovo cessate il fuoco. L’annuncio è giunto nelle stesse ore in cui jet israeliani hanno colpito pesantemente la capitale siriana, prendendo di mira il ministero della Difesa, il quartier generale militare e un obiettivo vicino al palazzo presidenziale. Le bombe hanno ucciso tre persone e ferito altre 34, secondo i dati del ministero della sanità siriano.
Secondo un funzionario dell’esercito israeliano, l’attacco su Damasco e altre località ha avuto lo scopo di «impedire lo spostamento di truppe del regime jihadista verso il sud» e di «proteggere la comunità drusa».
L’intervento israeliano ha rappresentato una brusca escalation, in un momento in cui l’autoproclamato presidente Ahmad Sharaa – un ex comandante qaedista che ora vanta legami diretti con Washington – si è impegnato in un processo di normalizzazione dei rapporti con Tel Aviv. Nonostante i contatti in materia di sicurezza tra il governo Sharaa e Israele, quest’ultimo ha descritto la nuova amministrazione siriana come composta da “jihadisti mal mascherati” e ha fatto capire di voler creare una vasta zona cuscinetto nel sud della Siria con evidenti implicazioni strategiche oltre il confine nord-orientale.

Ahmad Sharaa dopo la caduta di Bashar Assad
La situazione si è ulteriormente aggravata con gli scontri violenti a Sweida e nei villaggi limitrofi, teatro da alcuni giorni di combattimenti tra miliziani drusi, forze governative e gruppi armati beduini. Secondo la Rete siriana per i diritti umani, almeno 169 persone hanno perso la vita, ma fonti della sicurezza stimano che il numero reale possa superare i 300. Il leader spirituale druso, Hikmat Hijri, ha denunciato «un attacco barbaro» delle forze governative contro la propria comunità.
La tensione è talmente alta che centinaia di cittadini drusi israeliani hanno attraversato illegalmente il confine per unirsi ai loro parenti e correligionari sul lato siriano.
Gli Stati Uniti hanno esortato alla moderazione, ma non hanno condannato i raid aerei né le dichiarazioni di Tel Aviv, che continua a invocare il dovere morale di «evitare un massacro della comunità drusa» in Siria.
A Sweida, intanto, la popolazione vive nel terrore. Raggiunti telefonicamente, alcuni residenti hanno raccontato di essere barricati in casa, mentre gli spari e le esplosioni si susseguono a ogni ora del giorno. «Siamo circondati e sentiamo le urla dei combattenti… siamo così spaventati», ha detto un abitante, chiedendo di non essere identificato. Un altro ha mostrato a un giornalista il corpo del fratello, colpito alla testa all’interno della propria abitazione. Media locali ha riferito di avere assistito a saccheggi e incendi di abitazioni da parte delle forze governative.
Il cessate il fuoco annunciato oggi è l’ennesimo tentativo di fermare il ciclo di violenza, ma le prospettive restano incerte. Le cause profonde del conflitto – rivalità settarie, sfiducia verso l’autorità centrale e interferenze straniere – sono lontane dall’essere risolte. La minoranza drusa, che segue una religione derivata dall’Islam e si distribuisce tra Siria, Libano e Israele, teme di diventare il bersaglio degli attacchi di jihadisti vecchi e nuovi.
Sharaa promette di «proteggere tutte le minoranze», ma le uccisioni di massa della comunità alawita avvenute a marzo pesano come un macigno sulla sua credibilità. Il conflitto interno, amplificato dall’interventismo israeliano e dal silenzio complice delle potenze occidentali, rischia ora di aprire un nuovo e pericoloso fronte regionale.
Israele, da parte sua, continua a dichiararsi paladino della minoranza drusa, ma osservatori e attivisti temono che dietro la “protezione” promessa si celi un progetto geopolitico ben più ambizioso: disegnare una nuova architettura di sicurezza in Siria meridionale, anche a costo di ridefinire – unilateralmente – i confini e gli equilibri etnici dell’area.