Brett Hankison, ex agente della polizia di Louisville, è stato condannato a 33 mesi di carcere per aver violato i diritti civili di Breonna Taylor, la giovane donna afroamericana uccisa nel marzo 2020 durante un controverso raid della polizia nella sua abitazione. Una sentenza che arriva a cinque anni dalla notte in cui la 26enne, infermiera e simbolo delle proteste antirazziste esplose negli Stati Uniti, perse la vita sotto i colpi degli agenti.
La giudice federale Rebecca Grady Jennings ha emesso la condanna, criticando duramente la richiesta del Dipartimento di Giustizia – controllato da esponenti dell’amministrazione Trump – che aveva proposto per Hankison una pena simbolica di un solo giorno. “Questa sentenza non potrà mai essere commisurata al valore della vita della signora Taylor – ha dichiarato la giudice – ma è un atto necessario per riaffermare il principio di responsabilità”.
Il raid che costò la vita a Taylor fu eseguito con un mandato “no-knock”, che consente alla polizia di irrompere in una casa senza preavviso. Il fidanzato di Taylor, Kenneth Walker, credendo che si trattasse di un’intrusione, sparò un colpo con la sua arma legalmente detenuta. La polizia rispose aprendo il fuoco: Taylor fu colpita a morte. Hankison, pur non avendo sparato direttamente alla giovane, fu accusato di aver messo in pericolo la vita degli occupanti e dei vicini con colpi sparati alla cieca attraverso le finestre.
Durante il processo, la madre della vittima, Tamika Palmer, ha chiesto giustizia: “Un pezzo di me mi è stato strappato quella notte. Oggi potete scegliere di porre fine all’impunità”. Anche Walker e altri familiari sono intervenuti in aula per chiedere una pena esemplare. Alla fine, la corte ha optato per il minimo previsto dalle linee guida federali – tra 33 e 41 mesi – ma ben più della richiesta della procura.
La sentenza segna un punto di rottura tra due visioni contrapposte di giustizia. Da un lato, l’amministrazione Biden, che ha riaperto il caso e portato nuove accuse federali per violazioni dei diritti civili. Dall’altro, il Dipartimento di Giustizia sotto Donald Trump, che ha cercato di minimizzare il ruolo di Hankison, negando che fosse responsabile della morte di Taylor. Il memorandum di condanna, non firmato dai procuratori di carriera ma redatto da funzionari nominati politicamente, ha suscitato forti polemiche.
Hankison, già assolto da un processo statale nel 2022, si è dichiarato pentito: “Se avessi saputo dei problemi nel mandato, non avrei mai sparato”. Ma le sue parole non hanno placato la rabbia dei familiari, né delle comunità afroamericane che da anni chiedono riforme profonde nei corpi di polizia.
Il caso Taylor, insieme a quello di George Floyd, ha innescato un’ondata di mobilitazioni senza precedenti negli Stati Uniti e nel mondo. Ma a cinque anni di distanza, molte delle promesse di riforma restano sulla carta. La condanna di Hankison è un passo, ma per molti è ancora troppo poco.