In uno dei momenti più tesi e significativi dell’offensiva israeliana in corso a Gaza, due tra le più note organizzazioni per i diritti umani israeliane hanno compiuto un passo di grande significato: accusare apertamente lo Stato di Israele di genocidio. Lunedì, in una conferenza stampa tenuta a Gerusalemme, B’Tselem e Physicians for Human Rights hanno presentato rapporti che delineano – nei dati, nelle testimonianze e nell’analisi giuridica – ciò che definiscono “un’azione coordinata e deliberata per distruggere la società palestinese nella Striscia di Gaza”.

Un’accusa che scuote le fondamenta stesse della narrazione pubblica israeliana.

«Abbiamo esaminato tutti i rischi: legali, reputazionali, sociali. Sapevamo che questa affermazione avrebbe avuto un costo, ma non potevamo più tacere», ha dichiarato Sarit Michaeli, direttore internazionale di B’Tselem. L’organizzazione, pur marginalizzata nella politica interna, gode di rispetto e riconoscimento a livello internazionale.

Il rapporto accusa Israele non solo di aver condotto bombardamenti indiscriminati, ma di aver adottato una strategia sistematica per disintegrare la società palestinese, attraverso la distruzione di infrastrutture civili, l’assedio totale e il blocco degli aiuti umanitari, che ha spinto l’intera popolazione verso una carestia annunciata.

Nelle stesse ore in cui veniva presentata la denuncia delle due Ong, un osservatorio internazionale sulla fame nel mondo confermava che nella Striscia di Gaza c’è la fame: bambini sotto i cinque anni muoiono per malnutrizione, l’accesso umanitario è pressoché nullo, e il collasso sanitario è già realtà.

Il bilancio, secondo stime delle Nazioni Unite e di fonti palestinesi, supera ormai le 60.000 vittime, la maggior parte delle quali civili. Un numero enorme certo non compatibile con l’argomentazione israeliana della “guerra mirata contro Hamas”.

Ma in Israele, le parole “genocidio” e “crimine contro l’umanità” restano anatemi. Il governo ha risposto con veemenza alle accuse. Il portavoce dell’esecutivo, David Mencer, ha liquidato i rapporti delle ONG come “un uso distorto della libertà di parola” e ha sostenuto che dichiarazioni di questo tipo “alimentano l’antisemitismo nel mondo”.

Anche il ministero degli Esteri e l’ufficio del primo ministro Benjamin Netanyahu, già sotto pressione per il caso aperto alla Corte internazionale di giustizia dell’Aia su iniziativa del Sudafrica, si sono trincerati dietro il rifiuto: “Israele non commette genocidio. Ci difendiamo da Hamas, che usa i civili come scudi umani”, è il mantra ribadito da mesi.

Israele resta fermo sulla sua “guerra difensiva” dopo l’attacco di Hamas nel sud del paese il 7 ottobre 2023. In questo contesto, il dibattito interno resta ancorato sulla vendetta e la legittimazione della forza.

Yuli Novak, direttrice esecutiva di B’Tselem, ha parlato con tono commosso: «È una realtà che la mente fatica ad accettare.  Ma è proprio questa sofferenza che ci impone di dire la verità».

Un’analoga determinazione traspare dalle parole di Guy Shalev, direttore di Physicians for Human Rights Israel, che denuncia un progressivo strangolamento amministrativo e finanziario: «Conti congelati, ostacoli burocratici, pressioni legali: la macchina della repressione si è già messa in moto, e sappiamo che peggiorerà».

La società israeliana, nel suo insieme, resta ostile a queste denunce. La parola “genocidio” continua a essere vista come un attacco all’identità e alla legittimità dello Stato. Ma l’isolamento interno non ha fermato le due Ong, che hanno scelto di allinearsi a un crescente coro internazionale che chiede giustizia e responsabilità per ciò che accade ogni giorno a Gaza.