Questo articolo è stato pubblicato in origine dal quotidiano Il Manifesto

Nella foto in evidenza da Wikipedia, l’evacuazione dei coloni da Gaza nell’agosto 2005

A Nitzan B è cambiato tutto e niente allo stesso tempo. Dopo venti anni, le strade sono state asfaltate e hanno un nome, e le «caravillas» prefabbricate di legno di pochi metri quadrati costruite per ospitare i coloni evacuati da Gaza, ora sono villette con il giardino. Ma questo centro abitato, in mezzo al nulla tra Ashqelon e Ashdod, in cui vivono circa 400 famiglie provenienti in prevalenza dall’insediamento coloniale di Neve Deqalim, ha l’aspetto di un quartiere-dormitorio: non si scorge anima viva in strada e non soltanto per il sole che brucia la pelle. Uguale a venti anni fa è il minimarket fatiscente all’ingresso del villaggio, però utile per avere qualche informazione. «Se vuoi qualche informazione aggiornata devi andare al Gush Katif Heritage Center, lì vanno tutti i visitatori, ti diranno tutto», ci dice la cassiera di origine asiatica.

Nitzan B nel 2007

Completato nel 2007, due anni dopo il ritiro dei soldati israeliani e l’evacuazione con la forza dei coloni da Gaza prevista dal piano di Disimpegno del premier Ariel Sharon, il Gush Katif Heritage Center è una sorta di santuario dove, letteralmente ogni giorno, vanno in visita scolaresche, attivisti della destra, turisti israeliani e cittadini stranieri legati ad associazioni filoisraeliane americane ed europee. I tour prevedono visite al museo, attività per ragazzi e più di tutto, lecture di esponenti del centro incaricati di raccontare e spiegare «la ferita che non si è mai rimarginata», il trauma di chi è stato «strappato alla propria terra» e «ha visto la propria casa distrutta». Perché a Nitzan B, Beer Ganim e in tutti gli altri luoghi in cui furono insediati i coloni evacuati, nessuno ha mai avuto dubbi: Gaza, ripetono, è terra di Israele non dei palestinesi, è parte della biblica Erez Israel e i palestinesi sono degli intrusi.

Dana e Ronit (non i nomi veri, su richiesta delle intervistate), signore di mezz’età che gestiscono, assieme ad altri il flusso dei visitatori e delle iniziative, ci parlano di Neve Dekalim – la più importante e meglio attrezzata delle 21 colonie di Gush Qatif costruite da Israele a Gaza dopo averla occupata militarmente nel 1967 – come di una sorta di paradiso in terra. Entrambe vivevano lì, assieme ad altri 8mila coloni. La loro vita non era in alcun modo in contatto con i palestinesi. Occupavano ampie porzioni di territorio, in parte destinate all’agricoltura e controllavano chilometri di spiaggia vietate ai palestinesi, specie verso Khan Yunis e Rafah. Avevano acqua abbondante per annaffiare prati e giardini e riempire le piscine, mentre i palestinesi lottavano per avere almeno quella da bere. Una situazione da apartheid sudafricano. «A Neve Dekalim c’erano la scuola, i negozi, tutto quello di cui avevamo bisogno. Avevo un negozio in cui vendevo regali, matite, penne, cose così. Ho sette figli, tutti nati a Gush Qatif» ci dice Dana «poi dopo essere stati portati via con la forza, siamo venuti qui e 13 anni fa abbiamo costruito la nostra casa. I figli sono cresciuti, ci siamo rifatti una vita, però il nostro cuore è lì». La donna racconta con commozione che il figlio ha combattuto a Gaza dopo il 7 ottobre 2023. «Mi ha telefonato per dirmi, mamma sai sono tornato alla nostra casa, ho visto dove vivevamo. Era molto piccolo quando siamo stati cacciati via, eppure è rimasto legato a Gush Qatif».

Ronit invece oltre a raccontarci il suo «trauma dello sradicamento», critica apertamente il Disimpegno di Ariel Sharon nel 2005, che pure era stato per decenni un nemico implacabile dei palestinesi (fu coinvolto anche nel massacro nei campi profughi di Sabra e Chatila a Beirut nel 1982). E mette in relazione il Disimpegno del 2005, con l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023. «Sapevamo che andare via da Gaza non sarebbe stata una buona cosa. E oggi penso che, se fossimo rimasti lì, il 7 ottobre non sarebbe mai avvenuto. Perciò ogni giorno ripeto: ve lo avevamo detto. Ve lo avevamo detto, ma non ci avete ascoltato. Vi avevamo avvertito che sarebbe successo. Perché Israele non era lì e Hamas ha potuto fare quello che voleva». Poi ribadisce un’idea molto diffuso nella società israeliana, dal cittadino comune a gran parte dei leader politici: «Con gli arabi si deve usare la forza perché, quando ci colpiscono e ci uccidono credono di spezzare la nostra determinazione e di costringerci ad andare via. Non possiamo mostrarci deboli, mai». Il clacson di un bus la interrompe. «Sono arrivati i ragazzi che attendevamo, devo andare» ci dice allontanandosi con passi veloci.

Il cartello stradale che fino al 2005 indicava l’ingresso delle colonie di Gush Qatif a Gaza (foto di Michele Giorgio)

Il 17 agosto di venti anni fa, i soldati israeliani per ordine di Sharon, cominciarono ad evacuare i coloni. Due giorni prima era scaduto il termine ultimo fissato dal governo per lasciare volontariamente Gaza. Pochi l’avevano fatto, tutti gli altri scelsero di restare.   Per giorni gli 8mila settler di Gush Qatif opposero una resistenza passiva – talvolta attiva – ai soldati giunti alle loro case. Le tv di tutto il mondo mostrarono ragazzi e adulti che urlavano, salivano sui tetti delle case, si battevano il petto con la Torah in mano. E i militari che li portavano via con le lacrime agli occhi. Un «dramma» vissuto da tutto il paese tenendo sotto il tappeto la verità storica: Gaza è un territorio palestinesi e i coloni degli occupanti. Il 12 settembre fu completata oltre all’evacuazione anche la demolizione di tutti gli edifici nei 21 insediamenti, incluse le sinagoghe. Le serre e altre strutture agricole furono acquistate da parte internazionali allo scopo di donarle ai palestinesi. Sharon da tempo pensano a Disimpegno da Gaza, per due motivi principali. L’Intifada cominciata nel 2000 e la successiva guerriglia palestinese avevano causato danni e perdite significative ai soldati e diversi coloni furono uccisi: il costo dell’occupazione si era fatto insostenibile per Israele. Ma contò molto la «questione demografica». Temeva, spiegò il suo successore Ehud Olmert, che l’occupazione di Gaza avrebbe spinto presto o tardi i palestinesi voleva passare da una lotta contro l’occupazione a una lotta per «un uomo, un voto» facendo tremare le fondamenta sioniste di Israele, creato per essere lo Stato degli ebrei. Oltre alle colonie di Gaza, furono evacuati e distrutti anche quattro piccoli insediamenti in Cisgiordania.

Il post-7 ottobre ha offerto possibilità insperate ai coloni di Gush Qatif. Per 18 anni hanno creduto che non sarebbero mai rientrati a Gaza. Ora sono convinti che il «ritorno» sia possibile con l’esercito israeliano che ha occupato e distrutto gran parte della Striscia e il premier Netanyahu parla apertamente di «emigrazione» della popolazione palestinese. «Il rientro a Gaza è vicino. Non domani. Un anno, due anni, ma è vicino I miei figli e i miei nipoti vivranno lì», prevede Dana. «Gli arabi», aggiunge «se vorranno andare via…diremo loro bye bye. Ma coloro che resteranno dovranno accettare il nostro pieno controllo. Potranno lavorare e studiare ma sotto la nostra totale sovranità».

Il Gush Katif Heritage Center (foto di Michele Giorgio)

Al Gush Katif Heritage Center però i toni sono moderati. I presenti ripetono che «spetta solo al governo e dall’esercito valutare tempi e modi del ‘ritorno’ a Gaza» e della piena realizzazione della «redenzione della Terra di Israele». Toni ben diversi da quelli da battaglia che usano Daniella Weiss, Ayalet Schissel e altri membri del Nachala Settlement Movement che guida la campagna per la ricostruzione degli insediamenti ebraici a Gaza bussando alla porta, già aperta, di ministri e deputati alla Knesset che sono essi stessi coloni. Nachala ha circa 1.000 famiglie iscritte pronte, da subito, a creare insediamenti nel nord di Gaza. E, secondo l’organizzazione, il piano di occupazione militare di Gaza city chiesto e ottenuto da Netanyahu a inizio del mese, ha accelerato i tempi della ricostruzione degli insediamenti. Per Ayelet Schissel, evacuata il 17 agosto 2025 da Netzarim, il ritorno dei coloni a Gaza è una profezia che si realizza: «La volontà di tornare nella Striscia di Gaza, di tornare in quella parte della nostra patria, è sempre rimasta con noi, ora correggiamo l’errore commesso 20 anni fa». Dalla sua parte c’è il 52 percento degli israeliani favorevole, secondo un sondaggio, alla rinascita degli insediamenti a Gaza.