Se non avesse paura della verità, Israele permetterebbe ai giornalisti stranieri di entrare a Gaza. Li lascerebbe filmare le macerie, le file interminabili per un sacco di farina, i bambini scheletrici per la malnutrizione. E invece li tiene fuori, da quasi due anni, e colpisce quelli palestinesi che raccontano dall’interno. Secondo il sito di monitoraggio Shireen.ps, dedicato alla inviata di Al Jazeera, Shireen Abu Akleh, uccisa da spari israeliani nel 2022 a Jenin, in Cisgiordania, sono 270 i giornalisti, fotografi e operatori caduti sotto i bombardamenti israeliani nella Striscia dal 2022 a oggi. Numeri che parlano da soli.
Intanto emerge una nuova strategia di propaganda: gli influencer. Dieci tra statunitensi e israeliani, alcuni legati all’orbita repubblicana americana, sono stati invitati dal ministero israeliano della Diaspora a visitare la cosiddetta “altra Gaza”, filtrata e ripulita, da mostrare su Instagram e TikTok senza turbare le coscienze. Un tour che i giornalisti internazionali non possono fare, ma che si trasforma in reel accattivanti, con sticker colorati e slogan precotti.
Nei video diffusi nel fine settimana, i nuovi testimonial del governo Netanyahu mostrano banchi con aiuti alimentari, convogli ordinati, scorte distribuite “generosamente” al popolo palestinese. La narrazione è semplice: Israele non ha colpe, i responsabili sono Hamas e le Nazioni Unite, accusate di inefficienza. Non a caso, proprio le stesse Nazioni Unite hanno certificato nei giorni scorsi, con quattro delle loro agenzie, che a Gaza mezzo milione di persone è già colpito dalla carestia. Una cifra destinata ad aumentare nei prossimi mesi.
Ma questa parte non entra nelle riprese patinate degli influencer. Non entrano i numeri diffusi dall’Integrated Food Security Phase Classification (Ipc), che segnalano come entro fine settembre 640mila gazawi rischino il livello 5 di insicurezza alimentare, cioè la carestia conclamata. O che altri 1,14 milioni si trovino a un passo dal baratro, in livello 4. Non entra il dato agghiacciante che oltre un terzo della popolazione (39%) trascorre intere giornate senza cibo.
I reportage” non mostrano i 12mila bambini in malnutrizione acuta, né il balzo dei minori a rischio di morte passati da 14mila a oltre 43mila in quattro mesi. Non dicono che un neonato su cinque nasce prematuro o sottopeso. Non spiegano che i terreni agricoli di Gaza sono stati distrutti al 98%, che l’energia manca, che i prezzi del cibo sono saliti a livelli proibitivi.
Invece nella scenografia di cartapesta creata ad arte l’influencer conservatore Xavier DuRousseau, 521mila follower su Instagram, racconta la distribuzione del cibo mentre sorseggia un energy drink, come fosse una diretta da un festival musicale. Marwan Jaber, israeliano druso, accompagna le immagini con effetti grafici da videoclip. Brooke Goldstein, fondatrice del Lawfare Project, parla di quanto si sia sentita “sicura” durante la sua breve permanenza,
Sostituire i giornalisti con gli influencer significa spostare il racconto da chi verifica, domanda, incrocia fonti, a chi filma e confeziona contenuti sponsorizzati. Significa nascondere una catastrofe umanitaria senza precedenti prodotta dall’assedio israeliano.
Se Israele non temesse il giudizio dei media, aprirebbe i valichi alla stampa internazionale. Mostrerebbe la distribuzione degli aiuti senza bisogno di telecamere compiacenti. Permetterebbe di contare i pacchi, chiedere a chi li riceve, verificare le quantità. Ma sa che i numeri parlano chiaro, e che non bastano dieci influencer a ribaltarli.