di Giovanna Cavallo*
La Siria si trova in una fase di transizione incompiuta: si susseguono tentativi di normalizzazione diplomatica, mentre la condizione interna resta instabile e fortemente condizionata dalle pressioni di attori esterni. Attraverso una diplomazia multilivello, Damasco cerca di reinserirsi nel sistema internazionale. L’apertura di canali con il Regno Unito – segnali concreti arrivati con le visite del ministro britannico Hamish Falconer e della baronessa Nicholson membro della Camera dei Lord e a capo di una delegazione commerciale britannica – e con la Banca mondiale dimostra la volontà del governo siriano di attrarre investimenti e sostegno alla ricostruzione. In questo quadro si inserisce anche la decisione del presidente autoproclamato Ahmed al Sharaa di partecipare all’Assemblea generale delle Nazioni Unite: un evento dal forte valore simbolico, poiché sarà il primo capo di Stato siriano a parlare in questo importante consesso dal 1967, con l’obiettivo di legittimare la sua leadership su scala globale.
Dietro i palazzi del potere, però, la realtà appare ben diversa. L’estate di Suwayda, cuore pulsante della comunità drusa, è stata segnata da massacri e scontri sanguinosi. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, in appena pochi giorni di luglio sono morte quasi 1.900 persone: tra loro centinaia di civili uccisi dalle truppe governative e dai loro alleati beduini, oltre a numerosi combattenti caduti negli scontri diretti. Tradizionalmente marginalizzata ma rimasta relativamente stabile durante i momenti più duri della guerra civile, la regione si è trasformata all’improvviso in un epicentro di violenza. La città ha subito settimane di assedio, bombardamenti mirati e scontri urbani che hanno devastato interi quartieri e infrastrutture civili. Nonostante l’annuncio di un cessate il fuoco, le forze governative non si sono ritirate: al contrario, hanno mantenuto una presenza armata attraverso milizie locali vicine al ministero della Difesa, alimentando rancore e sfiducia.

Suwayda
In questo contesto, la comunità drusa ha scelto di organizzarsi autonomamente. Guidati moralmente dallo sceicco Hikmat al-Hijri, massima autorità religiosa della regione, notabili e giovani combattenti hanno fondato la cosiddetta “Guardia Nazionale”. Non si presenta come una forza separatista, ma come una milizia comunitaria di autodifesa con l’obiettivo dichiarato di proteggere la popolazione da violenze, saccheggi e rappresaglie. Il richiamo storico è forte: i promotori hanno evocato la memoria di Sultan Pasha al-Atrash, leader della rivolta siriana contro il mandato francese negli anni Venti, simbolo dell’orgoglio e dell’autonomia drusa. Nei proclami più recenti, i comandanti hanno invocato l’unità degli “uomini delle montagne profumate” – il soprannome con cui si indicano i drusi del sud siriano – ricordando che le rivalità interne servono solo ai nemici della comunità. L’appello ha trovato eco soprattutto tra i giovani, molti dei quali si stanno addestrando e organizzando in piccoli reparti armati distribuiti nei villaggi e nelle campagne. “Chi semina discordia tra noi serve i nostri nemici”, si legge in uno dei comunicati ufficiali.
Per il governo siriano questa nuova formazione rappresenta un dilemma: riconoscerla significherebbe ammettere l’incapacità dello Stato di garantire la sicurezza, ma reprimerla rischierebbe di incendiare ulteriormente la regione. Israele, intanto, osserva con attenzione. Da un lato, Tel Aviv dichiara di voler proteggere i drusi anche oltre confine; dall’altro, rafforza la propria presenza militare sul Golan. Una mossa che si può leggere come parte di una più ampia strategia israeliana di frammentazione del territorio siriano e di mantenimento di una frontiera fragile ma funzionale ai propri interessi strategici, occupata da oltre cinquant’anni. La nascita della Guardia Nazionale a Suwayda segna dunque un passaggio cruciale: il conflitto siriano non si riduce più alla contrapposizione tra governo centrale e opposizioni frammentate, ma assume i contorni di una frattura etnico-confessionale. Ogni comunità tende a organizzarsi in modo autonomo per sopravvivere, e anche Suwayda diventa così un altro simbolo di una Siria che fatica ancora a ricomporsi.
Il malcontento non resta confinato all’interno del Paese. Il prossimo 30 agosto, la diaspora drusa organizzerà manifestazioni in più in 10 stati nel mondo in contemporanea con Suwayda, con parole d’ordine ispirate al diritto umanitario e alla fine dell’assedio. La comunità rivendica la possibilità di costruire il proprio futuro in una Siria plurale e democratica, senza persecuzioni e senza esclusioni.
Intanto, a metà settembre, Damasco ha annunciato lo svolgimento delle prime elezioni parlamentari dopo la caduta di Assad, presentate come un passo verso la “trasparenza” e il rinnovamento politico. Ma i dubbi sono profondi. Dei 210 deputati, 140 saranno scelti da comitati locali controllati dal potere centrale, mentre gli altri 70 verranno nominati direttamente dal presidente al Sharaa. Inoltre, le elezioni non si terranno in tre province – tra cui Sweida, Raqqa e Hasaka – ufficialmente per “motivi di sicurezza”. L’amministrazione autonoma del Nord Est ha accusato Damasco di voler usare questa giustificazione come pretesto politico, con l’obiettivo di escludere aree considerate ostili al governo e di mantenere il controllo diretto su territori instabili.
La Siria vive una doppia realtà. Da un lato, l’immagine internazionale di un Paese che cerca legittimità attraverso conferenze, incontri diplomatici ed elezioni; dall’altro, la realtà di un territorio frammentato, scosso da conflitti comunitari e segnato da straordinarie preoccupazioni per il futuro. In questa cornice un crocevia di sofferenze e di resistenze che mette in discussione la tenuta dello Stato e la credibilità del processo di ricostruzione politica.
*Esperta di Siria e della questione drusa