Pagine Esteri – È difficile, al momento, comprendere se si tratti o meno di un avvicinamento solo tattico e di necessità, ma il disgelo tra Cina e India è decisamente evidente dopo la ostentata partecipazione di Narendra Modi al vertice dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (Sco) nei giorni scorsi.
Il nazionalista di destra che guida l’India ormai da dieci anni è tornato a visitare la Cina per la prima volta dopo sette anni. Nel 2020, infatti, gli scontri militari lungo un tratto di confine conteso tra i due paesi causò un brusco deterioramento delle relazioni tra due potenze emergenti che del resto sono sempre state in competizione.
Lo scontro era iniziato nel 1962, quando Cina e India si combatterono sul fronte himalayano per il controllo di quasi 3500 chilometri di frontiera contesa, e da allora i rapporti tra Pechino e New Delhi non sono stati mai particolarmente cordiali.
Negli ultimi due decenni, poi, oltre alla competizione economica e alla disputa territoriale, sulle relazioni tra i due stati ha pesato anche la diversa collocazione geopolitica, con la Cina che punta a guidare – in posizione egemonica – un’alleanza di paesi alternativa al blocco occidentale e l’India interessata a mantenere un rapporto privilegiato con Washington proprio per contrastare la supremazia di Pechino.
Nel corso del vertice di Tianjin andato in scena domenica e lunedì scorsi, però, il leader indiano e il presidente cinese Xi Jinping hanno annunciato l’intenzione di risolvere il contenzioso territoriale e di aumentare il grado di cooperazione economica.
Se le buone intenzioni si trasformeranno in atti concreti è tutto da vedere. I motivi di attrito e competizione tra le due potenze asiatiche sono concreti e molto radicati, anche se Xi Jinping ha fatto appello a superarli in nome della prosperità economica e della stabilità.
Mentre l’India teme l’espansionismo e l’egemonismo cinese, Pechino non tollera la vicinanza dell’India all’occidente e il suo rappresentare una spina nel fianco per molti dei suoi progetti strategici. Si potrebbero poi citare i conflitti commerciali (alimentati dall’enorme debito della bilancia commerciale indiana) e quelli sul controllo di importanti vie d’acqua, o la competizione sull’influenza da esercitare sullo Sri Lanka. Per non parlare del fatto che New Delhi tenta di boicottare la “Road and Belt Initiative” (la Nuova Via della Seta) promuovendo al suo posto propri corridoi commerciali.
Non è un segreto che in seno alla Sco il principale elemento di debolezza, oltre alla conflittualità tra India e Pakistan (entrati nell’organismo nel 2017), sia rappresentata proprio dai continui tentativi indiani di frenare le iniziative cinesi considerate spesso in contrasto con gli interessi di New Delhi. Pechino da parte sua reagisce cercando di aumentare la propria influenza su altri partner regionali, come il Pakistan e l’Afghanistan, impensierendo Narendra Modi.
Ma il protagonismo indiano al vertice di Tianjin, caratterizzato dalla esplicita volontà di creare un blocco contrapposto al bullismo globale di Washington, rappresenta già di per sé un piccolo miracolo, il cui principale responsabile è Donald Trump.
Se è vero infatti che i dazi imposti ad amici ed avversari dall’amministrazione statunitense stanno gonfiando le casse di Washington e imprimendo una forte spinta ai consumi interni americani, è sempre più chiaro che la politica aggressiva della Casa Bianca sta minando le relazioni tra gli Stati Uniti e molti paesi.
Sembra essere proprio il caso dell’India, paese tradizionalmente amico al quale però Washington ha deciso di imporre tariffe draconiane del 50%: ufficialmente per punire New Delhi, colpevole di aver continuato ad importare gli idrocarburi russi, aumentando addirittura il volume degli acquisti, approfittando delle tariffe fortemente scontate concesse da Mosca.
La misura punitiva, ben superiore al 20% medio applicato ad altri paesi dell’area come Vietnam, Pakistan, Bangladesh e Indonesia, rende molto costose le merci indiane penalizzandole fortemente sul fondamentale mercato statunitense. Un problema di non poco conto, considerando che nel 2024 l’India ha esportato negli States prodotti per un totale di 60 miliardi di dollari.
Da qui l’esigenza da parte di Modi di trovare subito nuovi sbocchi commerciali a fronte dello scontato crollo delle esportazioni verso gli Stati Uniti, e di cercare di fare blocco contro Washington – almeno sul fronte economico – con la Cina, anch’essa gravata da dazi del 30%.
Il leader indiano non ha inoltre gradito le dichiarazioni di Trump che, a maggio, si prese il merito di aver forzato India e Pakistan a cessare gli scontri militari dopo un attentato jihadista nella regione contesa del Kashmir. Modi smentì la Casa Bianca – che nel frattempo aveva diffuso alcune dichiarazioni decisamente schierate a favore del Pakistan – affermando che l’interruzione dei combattimenti era stata una sua iniziativa e non una cessione alle pressioni statunitensi.
I rapporti tra i due presidenti sarebbero così compromessi che, secondo la stampa americana, nelle ultime settimane Trump avrebbe cercato invano di organizzare un colloquio telefonico con il leader indiano.
Mentre Cina e India hanno deciso di riprendere i voli diretti tra i due paesi, sospesi dopo gli scontri di Galwan nel 2020, Donald Trump avrebbe deciso nei giorni scorsi di non andare in India per il previsto vertice del Quad, l’organismo di coordinamento politico e militare che riunisce Stati Uniti, Giappone, India ed Australia.
Affermare, come fanno molti, che le politiche aggressive di Trump stiano gettando l’India tra le braccia della Cina è probabilmente eccessivo, ma è innegabile che per la prima volta da quando è salito al potere il leader indiano ha aumentato fortemente la collaborazione con la Russia e avviato un avvicinamento a Pechino che, se sarà duraturo, potrebbe rimettere in discussione equilibri consolidati e ritorcersi contro gli interessi geopolitici di Washington in Asia. – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e saggista, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive anche di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con Pagine Esteri, il Manifesto, El Salto Diario e Berria