“Nervi d’acciaio, calma e saggezza, massima mobilitazione popolare”.  Una esortazione che, in Venezuela, è stata ripetuta spesso in questi anni, in risposta ai tanti sgambetti che la popolazione ha dovuto schivare: non tutta la popolazione, ovviamente, ma quella che, dal 6 dicembre del 1998, quando Hugo Chávez vinse a pieni voti la sua prima elezione presidenziale, ha deciso di gettare alle ortiche il neoliberismo della IV Repubblica. E non intende più tornare alle condizioni servili in cui viveva  prima. Una consegna che l’attuale direzione del chavismo – molto più avvertita e collegiale – ripete anche ora, quando il timore di un’aggressione militare da parte degli Stati uniti è ben più di un “al lupo, al lupo”.

In risposta, si mobilita “l’esercito del popolo”, si moltiplicano le petizioni e le dimostrazioni di solidarietà internazionale per dire che “il Venezuela è una speranza e non una minaccia”, e si presentano denunce presso le organizzazioni internazionali. In questi giorni, Caracas ha chiamato a convegno una nutrita rappresentanza del marxismo latinoamericano, riunito dalla Rete degli intellettuali e artisti in difesa dell’umanità (Redh), che ha mostrato la vivacità teorica di un continente “in disputa”, ma deciso a resistere.

“Il Venezuela continua a essere il grande laboratorio politico della nostra epoca – ci ha detto l’ex direttore di Le Monde diplomatique, Ignacio Ramonet – . Lì si sta cercando di fare qualcosa che il sistema globale non tollera: combinare democrazia partecipativa, sovranità nazionale e ridistribuzione sociale in un orizzonte socialista. Per questo le aggressioni non si fermano”.

In questo caso, tutto ha avuto inizio con la direttiva di Trump, ancora segreta, con cui ha autorizzato il Pentagono a usare la forza militare contro alcuni cartelli della droga che il suo governo ha classificato come organizzazioni terroristiche. Quasi in contemporanea, gli Usa hanno dichiarato che una di queste organizzazioni si chiama Cartel de los Soles, e che è capeggiata dal presidente venezuelano, Nicolás Maduro. Un presidente “illegittimo” – ha rincarato Trump -, aumentando la  “taglia” sulla sua testa fino a 50 milioni di dollari. Quella precedente – di 15 milioni – era stata da lui decisa nel 2020, durante il suo primo mandato.

“Il Cartel de Los soles è un’invenzione”, ha ribadito il Venezuela, basandosi su precedenti inchieste giornalistiche e sentenze giudiziarie, che hanno smontato la fake news, già circolata negli anni passati, e ora ripresa. E ha promesso “un nuovo Vietnam” alle truppe Usa in caso di invasione.

Trump ha però inviato una flotta da guerra di fronte alle coste venezuelane, ha dichiarato di aver “eliminato” 11 narcotrafficanti su una barca stracolma di droga, e ha persino incluso un sottomarino nucleare: in piena violazione – hanno protestato i presidenti progressisti della regione – con l’accordo di  Tlatelolco, firmato a Città del Messico il 14 febbraio del 1967. Un Trattato che proibisce la circolazione e l’uso delle armi nucleari in America latina e nei Caraibi, facendone la prima zona denuclearizzata al mondo fra quelle densamente popolate.

D’altro canto, la Comunità degli Stati latinoamericani e caraibici (la Celac), un organismo creato nel 2010, che comprende tutti i paesi americani meno gli Stati uniti e il Canada, in un vertice organizzato a Cuba nel 2014, ha dichiarato la regione “zona di pace”. Per questo, la Colombia di Gustavo Petro, che ha la  presidenza pro-tempore, ha riunito d’urgenza i ministri degli Esteri della Celac, che hanno emesso una dichiarazione “preoccupata”.

Non si è trattato, però, di un comunicato ufficiale perché l’organismo agisce per consenso e 9 paesi non hanno voluto firmare. La premier di Trinidad e Tobago, ha anzi offerto a Trump la propria disponibilità logistica nel caso di un intervento militare. E il governo della Guyana, dove si trova il ricchissimo territorio dell’Essequibo, storicamente conteso con il Venezuela, ha da tempo consentito al Comando Sud di presidiare la zona, per proteggere le perforazioni illegali delle multinazionali Usa. E l’Ecuador, che con i governi di Correa aveva espulso dal territorio le basi militari, ora con Noboa ne sta organizzando il rientro.

Il ritorno a destra di alcuni paesi-chiave della regione, che ha fortemente minato il progetto di integrazione latinoamericana e caraibica, è uno dei fattori che espongono maggiormente il Venezuela al rischio di un’invasione militare, che destabilizzerebbe tutta la regione. Un rischio che pochi sottovalutano.

Tutti hanno presente quel che Trump e il suo “cane pazzo” si stanno permettendo in Medioriente. I bombardamenti all’Iran sono ancora freschi, e nessuno può prendere alla leggera le minacce del segretario di Stato, Marco Rubio, rappresentante dei potentati anticomunisti di Miami. Le sue ascendenze non gli consentirebbero esattamente il ruolo di paladino della lotta alla droga, tanto che, a sinistra, si è guadagnato il soprannome di “Narco-Rubio”. Per anni, infatti, ha vissuto nella casa del cognato, che era un centro operativo di narcotraffico. Il cognato venne condannato per aver distribuito circa 15 milioni di dollari in cocaina: salvo, poi, essere liberato dal carcere nel 2000, quando Rubio divenne deputato della Florida, ed entrare a far parte del suo ufficio politico.

Per intanto, però, a Rubio, reduce da un viaggio nei paesi limitrofi al Venezuela per caldeggiare l’invasione, viene lasciata briglia sciolta. A sostenerlo, la destra golpista di Maria Corina Machado, che preme per l’invasione armata e che, “dalla clandestinità” dove sostiene di trovarsi, emette proclami infuocati rivolti ai militari venezuelani. Dal parlamento venezuelano, però, la destra “istituzionale” si dichiara indisponibile ad appoggiare avventure militari.

“Parla così perché la sua famiglia sta fuori dal paese”, ha dichiarato Henrique Capriles, ex candidato presidenziale antichavista, in un duro comunicato, ribadendo che le bombe di Trump non sarebbero così “intelligenti” da uccidere solo i chavisti in una famiglia composta da diverse opinioni.

Ma, intanto, è in pieno corso la guerra mediatica. Quando Trump ha diffuso immagini aeree di una presunta imbarcazione di narcotrafficanti distrutta, il governo bolivariano ne ha smontato l’autenticità, sostenendo si trattasse di un video confezionato con l’Intelligenza artificiale. Ha però anche ribadito che, se la distruzione fosse stata reale, si sarebbe trattato di una grave violazione dei dritti umani perché non è poi così consueto “eliminare” senza processo 11 esseri umani.

D’altro canto, difficile smentire i dati delle stesse organizzazioni per la lotta alla droga, che non includono il Venezuela nei paesi produttori di droga, né lo considerano una delle rotte principali. Tuttavia, i poderosi portali della destra moltiplicano le dichiarazioni dei soliti militari in pensione, secondo i quali sarebbero le organizzazioni della guerriglia colombiana, ancora in attività, a gestire il traffico di droga in accordo con il governo bolivariano.

Resta da capire come mai, se così fosse, quegli 11 sperimentati “narcotrafficanti” siano stati così ingenui da gettarsi sotto il fuoco degli Usa e di una flotta da guerra non certo invisibile alle imbarcazioni.

I giornalisti internazionali, che si sono recati sulle coste venezuelane, compresi quelli della Cnn, hanno solo potuto raccogliere il timore dei pescatori venezuelani per il rischio che comporta la presenza di una flotta armata nordamericana pronta a sparargli addosso: “Ma se non possiamo più uscire a pescare – dicono – di cosa vivremo?”.