Nel corso delle decadi successive alla Guerra di Corea, tra gli anni Cinquanta e Ottanta, in Corea del Sud si sviluppò un sistema sofisticato e largamente ignorato fino a tempi recenti: migliaia di giovani donne, spesso adolescenti, furono convinte, costrette o ingannate per lavorare in bordelli legati alle basi militari statunitensi. Con la scusa di posti di lavoro come barista o cameriera, promesse di opportunità economiche che sembravano vitali in una nazione devastata dal conflitto, queste donne venivano invece impiegate – direttamente o indirettamente – nello sfruttamento sessuale. Le autorità sudcoreane, per decenni, negarono la piena responsabilità del governo; oggi, però, le vittime esigono non solo riconoscimento, ma azione giudiziaria. È di questi giorni la notizia che 117 donne in Corea del Sud hanno presentato causa in tribunale contro lo Stato sudcoreano e l’esercito statunitense. Le motivazioni: abusi sessuali, coercizione, sfruttamento, false promesse, e un sistema che, seppur tacito, fu sostenuto dalle istituzioni. Una delle prime sentenze rilevanti in materia risale al 2022, quando la Corte Suprema di Seul ha stabilito che il governo – allora – aveva istituito, gestito e operato illegalmente bordelli per i soldati statunitensi. In quel caso, il risarcimento fu concesso ad alcune decine di querelanti. Ma la novità vera è che nella causa presentata dalle 117 donne, si chiede per la prima volta un atto di responsabilità diretto anche verso l’esercito USA. Le richieste includono non solo un indennizzo, ma soprattutto scuse formali e un riconoscimento pubblico delle ingiustizie subite. Le testimonianze raccolte dagli atti giudiziari dipingono un quadro angosciante: ragazze molto giovani, talvolta sedicenni o poco più, che vengono attirate con false promesse di lavoro, poi rinchiuse in bordelli associati alle basi, costrette a sottoporsi a controlli medici coatti per malattie veneree, e se ritenute “non idonee”, isolate in stanze fino a quando non trovano di nuovo accettabile il loro stato. Una donna ha ricordato: “Avevo appena 16 anni, mi dissero che avrei servito da cameriera, ma il giorno dopo ero già rinchiusa in una stanza con un soldato americano”. Un’altra ha raccontato: “Se ci ammalavamo venivamo marchiate come non idonee e isolate, come se fossimo oggetti rotti. Ci trattavano peggio degli animali”. Secondo storici interpellati, l’economia legata ai quartieri attorno alle basi – bar, ristoranti, bordelli, servizi accessori – arrivava a rappresentare fino a un quarto del PIL della Corea del Sud negli anni Sessanta e Settanta. Un intero settore che prosperava grazie a questa alleanza strategica, che con il tempo ha costruito intorno al suo mantenimento un sistema di silenzi e omissioni. Nella causa appena depositata, le donne richiedono 10 milioni di won ciascuna, che corrispondono approssimativamente a 7.200-8.000 dollari (o circa 6.000 euro) oltre a un riconoscimento simbolico – una scusa ufficiale, un’assunzione di responsabilità – da parte del governo sudcoreano e degli Stati Uniti. Questo importo, seppur simbolico rispetto alle sofferenze fisiche e psicologiche denunciate, rappresenta un punto di svolta: non si chiede solo che emerga la verità, ma che essa sia riconosciuta nel diritto, nel risarcimento, nella memoria pubblica. Una delle donne ha dichiarato: “Non voglio i soldi, voglio che il governo ammetta quello che ci ha fatto. Ho perso la mia giovinezza, la mia dignità, la mia famiglia”. Il caso riguarda più che un conflitto storico: mette in questione la natura dell’alleanza tra Corea del Sud e Stati Uniti. Per decenni, Washington è stato l’alleato chiave della Penisola nella sua lotta contro la Corea del Nord; le basi militari USA sono tuttora presenti in numero significativo (tra i 28.000 e i 29.000 effettivi) sul suolo sudcoreano. In questo contesto, rivelare che quelle basi sono state circondate da un sistema di sfruttamento sessuale con il coinvolgimento – tacito o esplicito – delle autorità nazionali, diventa un problema di credibilità politica, di diritti umani, e di come le potenze militari interagiscono con la società civile. Le istituzioni USA, per ora, hanno dichiarato di essere a conoscenza delle denunce ma si limitano a sottolineare che non commenteranno mentre sono in corso i procedimenti legali. Inoltre, affermano che non tollerano comportamenti che violino le leggi, le direttive e le regole della Corea del Sud. Una delle ragioni per cui queste vicende sono rimaste ai margini è lo stigma sociale: la vergogna associata a chi è stata prostituta, specie quando la prostituzione è stata in parte imposta o sotto forte coercizione. Inoltre, la figura più nota nel panorama internazionale quando si parla di “comfort women” è quella delle donne costrette dai giapponesi durante la Seconda guerra mondiale, che nel tempo è diventata simbolo riconosciuto della violenza coloniale e patriarcale. Le donne sudcoreane sfruttate dalle forze statunitensi invece hanno subito una rimozione quasi completa da memoria pubblica e discorsi ufficiali. Questa causa non è solo giudiziaria, ma culturale e politica. Serve a ribaltare narrazioni consolidate, a chiedere trasparenza, a fare emergere il danno reale subito da persone che troppo a lungo sono state invisibili. Serve a dimostrare che il diritto internazionale, i principi dei diritti umani, si estendono non solo a guerre e conflitti apertamente riconosciuti, ma anche a quegli abusi perpetrati nell’ombra di alleanze strategiche. Il risultato della causa, che si sappia ora sia in Corea del Sud che potenzialmente negli Stati Uniti, potrà avere conseguenze anche oltre il risarcimento economico: potrà muovere il dibattito su come gli Stati gestiscono le basi straniere, i diritti delle popolazioni locali, l’obbligo di protezione dei civili, la memoria storica. Pagine Esteri