In Iran il 2025 si sta rivelando l’anno più buio degli ultimi quindici per quanto riguarda l’uso della pena capitale. In meno di nove mesi le autorità hanno eseguito più di mille condanne a morte, superando già la cifra, di per sé drammatica, registrata lo scorso anno. È quanto denuncia Amnesty International, che chiede l’immediata sospensione di tutte le esecuzioni e una moratoria ufficiale come primo passo verso l’abolizione.

Il ricorso alla pena di morte, sottolinea l’organizzazione, non si limita più a colpire i reati di droga, già puniti con estrema severità in Iran, ma è divenuto un vero e proprio strumento di repressione politica. Dalla rivolta “Donna Vita Libertà” del 2022, scatenata dalla morte di Mahsa Amini, le autorità hanno intensificato le condanne contro dissidenti, minoranze etniche e manifestanti. La nuova fase di tensione seguita all’escalation militare con Israele, iniziata a giugno 2025, ha fornito a giudici e apparati di sicurezza ulteriori pretesti per ricorrere a sentenze capitali con l’accusa di spionaggio, “inimicizia contro Dio” o “corruzione sulla terra”, formule vaghe che lasciano ampio margine all’arbitrio politico.

“L’Iran sta utilizzando la pena di morte come un’arma per soffocare il dissenso, in un attacco agghiacciante al diritto alla vita”, ha dichiarato Heba Morayef, direttrice regionale di Amnesty per Medio Oriente e Nordafrica. L’organizzazione ribadisce che tali condanne derivano da processi “gravemente iniqui” celebrati davanti ai tribunali rivoluzionari, noti per la mancanza di indipendenza e per l’uso sistematico di confessioni estorte sotto tortura.

L’elenco dei casi documentati è lungo e inquietante. Il 17 settembre 2025 Babak Shahbazi è stato condannato a morte dopo un procedimento che non ha mai preso in considerazione le sue denunce di torture subite in carcere. Due donne curde, l’operatrice umanitaria Pakhshan Azizi e la dissidente Verisheh Moradi, rischiano l’esecuzione. Numerose le condanne anche contro cittadini afghani, che rappresentano una quota crescente delle persone giustiziate: da 25 nel 2023 a 80 nel 2024, con un ulteriore aumento quest’anno, in parallelo con una campagna xenofoba e ondate di espulsioni forzate.

Dal giugno 2025 almeno dieci uomini sono stati messi a morte per accuse di spionaggio a favore di Israele. Altri, come lo scienziato svedese-iraniano Ahmadreza Djalali e l’attivista per i diritti delle donne Sharifeh Mohammadi, rimangono in pericolo dopo la conferma della condanna da parte della Corte suprema. La situazione è aggravata dall’iniziativa del parlamento iraniano che, con il sostegno del capo del potere giudiziario Gholamhossein Mohseni Eje’i, ha approvato una legge per ampliare l’uso della pena capitale a nuove accuse legate alla sicurezza nazionale, comprese quelle di “cooperazione con governi ostili”.

Amnesty International denuncia come la pena di morte in Iran colpisca soprattutto le fasce più vulnerabili: minoranze baluci e curde, cittadini afghani privi di tutela, manifestanti e oppositori. L’uso della pena capitale per reati di droga, vietato dal diritto internazionale, continua a crescere, a dimostrazione che la logica punitiva prevale su qualunque principio di giustizia.

La richiesta dell’organizzazione è rivolta non solo a Teheran ma anche alla comunità internazionale, accusata di inazione. Amnesty sollecita i governi a esercitare pressioni dirette sulle autorità iraniane, imponendo sanzioni mirate e attivando la giurisdizione universale per perseguire i funzionari responsabili delle esecuzioni arbitrarie. “Il silenzio internazionale non è più tollerabile – afferma Heba Morayef – occorre un’azione rapida e concreta per fermare questa macchina di morte”.

L’Iran resta uno dei paesi con il più alto numero di esecuzioni al mondo. Dietro le statistiche, ammonisce Amnesty, ci sono storie individuali di vite spezzate, processi ingiusti e famiglie ridotte al silenzio. La pena di morte, definita la più crudele, disumana e degradante delle punizioni, continua a rappresentare lo strumento principale di un sistema che fa della paura e della repressione la propria ragion d’essere.