L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha diffuso ieri un rapporto che fotografa con cifre e testimonianze la devastazione umana provocata dalla guerra israeliana. I numeri parlano da soli: circa 42.000 persone hanno riportato ferite gravi dall’inizio del conflitto, almeno 5.000 hanno subito amputazioni e decine di migliaia convivono con disabilità permanenti che segneranno per sempre le loro vite e quelle delle loro famiglie.
Secondo i dati dell’OMS, un ferito su quattro è un bambino. Tra i casi registrati vi sono 22.000 lesioni agli arti, oltre 2.000 lesioni al midollo spinale, 1.300 traumi cerebrali e 3.300 ustioni gravi. Le testimonianze raccolte descrivono corpi devastati dalle esplosioni e dai bombardamenti, ferite al viso e agli occhi che necessitano di cure complesse e che spesso non trovano risposta all’interno della Striscia. Molti pazienti sono in lista d’attesa per l’evacuazione medica verso strutture all’estero, ma la maggior parte resta bloccata a Gaza, senza alternative.
Il sistema sanitario locale, già fragile per anni di blocco, è sull’orlo del collasso. Dei 36 ospedali presenti prima del 7 ottobre 2023, solo 14 funzionano parzialmente. La capacità di riabilitazione è stata quasi cancellata: meno di un terzo dei servizi precedenti è ancora operativo e, a fronte di migliaia di amputazioni, esistono appena otto specialisti in grado di produrre e adattare protesi. La crisi è aggravata dalla perdita del personale medico: almeno 42 fisioterapisti e tecnici della riabilitazione sono stati uccisi fino a settembre 2024.
“La riabilitazione è fondamentale non solo per il recupero da traumi, ma anche per chi soffre di malattie croniche e disabilità” ha ricordato Richard Peeperkorn, rappresentante dell’OMS nei Territori Palestinesi Occupati. “Gli sfollamenti, la malnutrizione e la mancanza di supporto psicosociale stanno aggravando la crisi”. L’agenzia delle Nazioni Unite chiede con urgenza protezione per le strutture sanitarie, accesso illimitato alle forniture mediche e un cessate il fuoco immediato.
Accanto al disastro sanitario si sviluppa una tragedia sociale e umanitaria che colpisce milioni di civili costretti a fuggire dalle proprie case. Dalla Striscia di Gaza settentrionale e da Gaza City, migliaia di famiglie hanno intrapreso quello che molti chiamano “il viaggio lungo le strade della morte”, spostandosi verso sud nella speranza di trovare rifugio. Ciò che hanno trovato, però, sono campi sovraffollati, assenza di servizi essenziali, fame crescente e sfruttamento.
Nelle aree centrali e meridionali, non esiste più spazio libero per piantare tende. I terreni disponibili vengono affittati a prezzi proibitivi e chi non può permetterselo è costretto a rifugiarsi in zone estremamente pericolose, esposte ai colpi israeliani. Le scelte per gli sfollati si riducono a un’alternativa crudele: vivere per strada senza protezione o rischiare la vita nelle aree di confine. “È come fuggire da una morte all’altra” raccontano i sopravvissuti.
Suleiman Bakr, un disoccupato che vive con una famiglia di dodici persone, descrive condizioni disumane: “Un posto dove piantare una tenda richiede l’affitto di un terreno, l’acqua potabile è costosa, i medicinali non sono disponibili gratuitamente e persino l’uso dei servizi igienici è a pagamento. Non ho un reddito da due anni, ma devo trovare soldi ogni giorno solo per sopravvivere. Persino per cucinare bisogna rischiare la vita andando a raccogliere legna nelle zone bombardate”.
L’acqua è divenuta oggetto di attese interminabili e disperate. Gli impianti di desalinizzazione sono in gran parte fuori uso e le cisterne non bastano a coprire i bisogni della popolazione. Le famiglie percorrono lunghe distanze per riempire taniche che costano più di quanto possano permettersi. Molti bambini trascorrono le giornate intere in fila davanti a punti di distribuzione, senza la certezza di riuscire a portare a casa neanche qualche litro.
La fame, intanto, stringe la sua morsa. Gli sfollati hanno esaurito i risparmi spesi per i trasferimenti forzati e non hanno più accesso a fonti di reddito. Le cucine di beneficenza, poche e mal distribuite, non sono in grado di rispondere a una domanda così alta. Ibrahim Suwailem, padre di una famiglia numerosa, racconta che ogni giorno lui e i figli devono recarsi all’alba presso i punti di distribuzione dei pasti: “Passiamo ore in fila, ma spesso non riusciamo a ottenere nulla. Quando arriva un pasto, le quantità sono ridotte e non bastano per tutti. I miei figli piangono per la fame e io non so cosa rispondere loro”.
Le scene descritte non sono isolate. Migliaia di famiglie affrontano le stesse privazioni, spesso costrette a sopravvivere con un pugno di farina o un piatto di riso. Alcuni campi profughi istituiti da poco non ricevono alcun sostegno alimentare, poiché gli aiuti si concentrano nei campi sorti durante le prime fasi della guerra. Pagine Esteri