Intervista e foto di Silvia Casadei, con la collaborazione di Ahmad Baderkhan
Il luogo ci è stato comunicato solo un ‘ora prima dell’incontro, per ragioni di sicurezza. Nonostante il cessate il fuoco con la Turchia, la situazione rimane instabile: prevenzione e vigilanza restano prioritarie in una regione dove l’equilibrio è sempre precario.
Fawza Youssef, membro della presidenza del Partito dell’Unione Democratica (PYD) curdo e figura chiave nei negoziati con Damasco, ci accoglie con un sorriso calmo e lo sguardo sicuro di chi ha attraversato anni di lotte per il proprio popolo. Fawza Youssef è una donna forte, abituata alle responsabilità: tra i principali referenti del PYD nei colloqui con il governo centrale, il 10 marzo si è recata a Damasco insieme a una delegazione curda per discutere con l’autoproclamato governo di Ahmad al-Shara’ un possibile accordo tra le forze autonome curde e la nuova leadership della capitale. Secondo le parole di Youssef, l’accordo sarebbe stato firmato proprio in quella data, ma ora sembra essersi arenato.
Il tema centrale che Youssef ribadisce durante l’incontro è la necessità di un governo decentralizzato, come unica via per garantire una reale autonomia ai territori curdi senza compromettere la stabilità nazionale. Nella stanza dove ci riceve campeggia un grande ritratto di Abdullah Öcalan, simbolo identitario e leader per la maggioranza dei curdi. Non abbiamo molto tempo: l’agenda di Youssef è fitta e l’attuale situazione in Rojava richiede la sua costante attenzione. Alcune aree oggi sono particolarmente delicate: la strada che collega Aleppo a Raqqa è chiusa da circa una settimana per motivi di sicurezza. Il 1º ottobre, fonti curde hanno riferito che milizie turche integrate nell’esercito siriano avrebbero bombardato la diga di Tishrin, nei pressi di Aleppo, colpendo direttamente la struttura. Le tensioni restano alte anche nella regione di Deir ez-Zor, dove si registrano scontri tra le forze governative di Damasco e le SDF, oltre a un’intensificazione delle attività dell’ISIS.
Abbiamo raccolto la voce di Fawza Youssef in questo momento decisivo per la regione autonoma del Rojava. Il 10 marzo scorso è stato siglato un accordo tra il nuovo governo di Damasco e le forze curde.
A sei mesi di distanza, qual è lo stato reale della sua attuazione?
Sulla base dell’accordo firmato avrebbero dovuto essere intrapresi alcuni passi concreti. Tuttavia, nonostante diversi incontri recenti tra noi e il Governo ad interim, finora nulla è stato realmente implementato. Sono avvenuti soltanto alcuni cambiamenti locali in aree come Shem-Maqsoud e Al-Ashrafieh, ma nel Nord-Est della Siria non si è registrato alcun progresso a livello costituzionale, amministrativo o militare. Il governo di Damasco mantiene quindi un sistema fortemente centralizzato, mentre la Turchia continua a esercitare la propria influenza sul governo, ostacolando qualsiasi avanzamento. Negli ultimi mesi la potenza garante, gli Stati Uniti, ha espresso la volontà di far proseguire i negoziati e sta lavorando in questa direzione. Parallelamente, però, si è verificata un’escalation delle fazioni sostenute dalla Turchia, all’interno del nuovo esercito siriano, che hanno avuto effetti negativi e provocato vittime civili. L’obiettivo è spingerci a fare concessioni e a indebolire la nostra posizione. Nel frattempo, si è registrato un rafforzamento militare da parte delle forze governative ad Aleppo. La situazione è tesa e negli ultimi giorni si sono verificati scontri armati.
Quali richieste avete avanzato durante i colloqui con Damasco? Sono state rispettate?
Per quanto riguarda le nostre principali richieste, riteniamo che la dichiarazione costituzionale non sia democratica. Molti suoi articoli non rispettano i nostri diritti come curdi: propongono uno Stato centralizzato e ignorano la volontà locale. Non garantiscono alcuna protezione ai diritti, alle lingue e alle religioni delle altre comunità. Chiediamo un governo decentralizzato che rispetti la volontà locale, con particolare attenzione ai diritti delle donne e alla lingua madre. La protezione resta per noi una richiesta fondamentale, alla quale finora Damasco non ha risposto.
Dalla caduta di Bashar al-Assad a oggi, il nuovo governo siriano ha più volte dichiarato di voler “rispettare le minoranze”. Tuttavia, i massacri degli alawiti avvenuti a marzo e quelli contro la comunità drusa pochi mesi dopo sembrano suggerire il contrario. Qual è la vostra valutazione, ritenete che esista davvero, da parte di questo governo, la volontà di tutelare le minoranze?
Spesso si sentono molte dichiarazioni positive da parte di questo governo, ma non si vedono azioni concrete. Ad esempio, i diritti dei curdi avrebbero dovuto essere rispettati nella dichiarazione costituzionale, soprattutto dopo l’accordo del 10 marzo, ma questa questione fondamentale non è stata attuata. Lo stesso vale per la tutela delle minoranze, che negli ultimi mesi hanno subito massacri. Questi episodi mostrano come, da parte di questo governo, si continui a mantenere una mentalità divisiva e centralizzata, affrontando gli eventi in modo settario e confessionale. Tale approccio provoca gravi problemi ed è motivo di forte preoccupazione per tutte le comunità, compresi armeni, cristiani e curdi, soprattutto alla luce di questi eventi. Esistono timori concreti che simili episodi possano ripetersi.
Il governo Al-Shara ha indetto nuove elezioni in Siria. Mentre diversi governi europei le descrivono come un “momento storico”, numerose organizzazioni per i diritti umani sostengono invece che si tratti di “nomine imposte dall’alto”. Qual è la vostra posizione in merito?
Secondo la nostra valutazione, queste non possono essere considerate vere elezioni. Riteniamo che il governo filtri i candidati, selezionando solo coloro che considera idonei ed escludendo gli altri. In questo modo le elezioni diventano una semplice messa in scena. Il problema principale del regime baathista era proprio la natura superficiale delle elezioni, e la stessa dinamica si sta ripetendo oggi. È stato introdotto un meccanismo che contraddice i principi democratici e penalizza la popolazione, in particolare le donne, imponendo una quota del 20%. Nelle nostre aree, ad esempio, le donne rappresentano circa il 50% del governo, mentre questo nuovo sistema riduce drasticamente la loro partecipazione. A nostro avviso, questo meccanismo serve soltanto a legittimare l’attuale assetto del governo, senza garantire una reale rappresentanza del popolo.
Il Rojava, così come il sud della Siria, è stato escluso dalle nuove elezioni. La regione autonoma curda si fonda sul principio del confederalismo democratico, un’idea profondamente diversa dal modello di Stato proposto da Al Shara. Secondo voi, esiste la possibilità di trovare un punto di incontro o avviare forme di dialogo tra queste due visioni così distanti?
Riteniamo che alcune questioni debbano essere riviste, soprattutto sul piano costituzionale. I nostri rappresentanti devono partecipare alla modifica della Costituzione per costruire uno Stato davvero democratico, capace di includere tutte le componenti del Paese, compresa la regione autonoma curda. In caso contrario, non ci sarà alcun progresso: i problemi si aggraveranno e la Siria rischierà una divisione ancora più profonda, come già dimostrano gli eventi nelle altre regioni. Per questo crediamo che il cambiamento sia indispensabile per creare una base comune su cui avviare un dialogo reale tra modelli di governo diversi. L’attuale situazione, però, non offre ancora le condizioni per costruire questo fondamento.
Quale ruolo svolge attualmente la Turchia nel nord-est della Siria, sia dal punto di vista militare sia politico?
La Turchia non ha cambiato la sua posizione nei confronti del nord-est della Siria. Non vuole che la Siria diventi uno Stato democratico e preferisce che rimanga centralizzato. Mira inoltre a porre fine e smantellare l’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord-Est e vuole che le Forze Democratiche Siriane (SDF) si uniscano all’esercito siriano solo come singoli individui, non come forza organizzata. Per questo, i funzionari turchi, dal Ministro degli Esteri al Ministro della Difesa, fino al Primo Ministro, hanno più volte lanciato minacce contro le nostre aree. La Turchia punta a riportare la Siria nella propria sfera d’influenza e fa pressione sulle fazioni locali perché intensifichino l’escalation militare. Consideriamo questa una chiara strategia politica turca.
Qual è stata la reazione delle forze curde presenti in Siria alla dichiarazione di Abdullah Öcalan, rilasciata il 12 maggio, con cui ha annunciato ufficialmente la fine della lotta armata del PKK?
Abbiamo accolto quella decisione in modo molto positivo. Crediamo che la guerra non sia sempre la risposta e che la diplomazia e la pace possano contribuire a risolvere alcune questioni. Allo stesso tempo, se la questione curda in Turchia verrà affrontata e risolta, ciò avrà certamente un effetto positivo anche su questa regione. Si tratta di un passo importante: il dialogo avviato dalla Turchia potrebbe avere un impatto favorevole sia in Turchia sia in Siria, qualora dovesse avere successo. Di conseguenza, oggi nel Nord-Est della Siria è in vigore un cessate il fuoco con la Turchia, tuttora rispettato. Lo consideriamo un fatto positivo e una delle conseguenze più concrete di questo nuovo dialogo.
In un recente rapporto sulla sicurezza, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha espresso preoccupazione per la crescente attività dell’ISIS in Siria.Quanto queste preoccupazioni riflettono la realtà attuale?
Esatto. Recentemente ci sono stati molti attacchi contro le Forze Democratiche Siriane a Deir ez-Zor. L’ISIS ha beneficiato del caos attuale in Siria, e questi attacchi sono aumentati dopo la caduta di Assad. Vediamo una grande escalation, in particolare di recente nelle aree di Deir ez-Zor.
Durante la guerra, chi è stato il vostro principale alleato? E oggi, chi considerate vostro alleato?
Il popolo curdo, in tutte e quattro le parti del Kurdistan, ci ha offerto un sostegno importante, così come molte forze democratiche nel mondo. Abbiamo avuto numerosi martiri, in particolare internazionalisti, e durante la nostra lotta contro il terrorismo abbiamo ricevuto anche un ampio appoggio internazionale, soprattutto da parte di gruppi femministi, ambientalisti, antifascisti e anti-jihadisti. Nella guerra contro l’ISIS abbiamo beneficiato del supporto della coalizione internazionale. Tuttavia, quando la Turchia ha lanciato la sua guerra contro di noi, nessuno ha preso una posizione chiara a nostro favore.
Nonostante l’occupazione israeliana delle alture del Golan, l’ingresso delle sue truppe in territorio siriano e i bombardamenti che hanno colpito non solo Damasco, ma anche Latakia, Homs e Palmira, l’attuale governo siriano sembra orientato verso una “normalizzazione” dei rapporti con Israele. Qual è la vostra posizione su questo processo di avvicinamento ?
Sembra che siano stati raggiunti alcuni accordi, soprattutto dopo gli incontri di Parigi e in Giordania tra Israele, Tom Barak e Al-Shaybani. Sembrano esserci stati degli intendimenti, ma al momento non è emerso alcun risultato chiaro. Riteniamo importante che la Siria possa avere relazioni pacifiche con i paesi vicini; tuttavia qualsiasi accordo non deve avvenire a spese della Siria e deve contribuire al futuro democratico del paese.
Recentemente Al- Shara’ si è recato all’ONU, un fatto che non accadeva dal 1967, e ha parlato davanti ai membri dell’Assemblea. Qual è la vostra opinione su questo evento?
Ciò che conta di più è capire come tutto questo influenzerà la Siria. Abbiamo visto che, soprattutto dopo quella visita, si è registrata un’escalation di violenze, come sta avvenendo nelle campagne di Aleppo. Osserviamo che il sostegno internazionale e la visione positiva verso il Governo di Transizione hanno un impatto che, in realtà, tende a riflettersi negativamente, e non positivamente, su questa regione. È fondamentale che tale sostegno non apra la strada a nuove forme di autoritarismo da parte del Governo di Transizione. Ci sono timori concreti che l’attuale accoglienza internazionale possa essere sfruttata in modo dannoso, con conseguenze pericolose per la stabilità dell’area.
Lei, che ha alle spalle anni di impegno politico e di lotta, come vede oggi il futuro della Siria?
C’è grande preoccupazione per il protrarsi dei combattimenti in Siria. Esistono timori concreti che la situazione possa degenerare in un conflitto internazionale e regionale, con gravi conseguenze per la Siria, per noi e per l’intera area circostante. Non possiamo affermare con assoluta sicurezza e tranquillità che l’evoluzione sarà positiva. Tuttavia stiamo lavorando per ridurre queste paure e prevenire nuovi scenari di violenza, evitando che si ripetano episodi come quelli accaduti a Sweida e lungo la costa. – Pagine Esteri