Nei giorni successivi alla firma dell’intesa di Sharm el-Sheikh, Israele ha accusato Hamas di aver violato la tregua, sostenendo che il gruppo non avrebbe rispettato l’obbligo di consegnare entro 72 ore i resti di tutti gli ostaggi deceduti. Le accuse, amplificate dai vertici militari e dai media israeliani, sono diventate uno dei principali argomenti con cui Tel Aviv ha cercato di giustificare il proprio atteggiamento sempre più aggressivo nella Striscia. Ma secondo fonti statunitensi e osservatori indipendenti, queste affermazioni non trovano riscontro né nel testo dell’accordo né nelle sue sottoclausole operative. Gli Stati Uniti hanno infatti smentito che Hamas abbia infranto i termini pattuiti, chiarendo che l’intesa va letta nella sua interezza e che i presunti ritardi non costituiscono una violazione formale.
L’accordo prevede che entro 72 ore Hamas consegni i corpi in suo possesso e trasmetta le informazioni relative agli ostaggi deceduti di cui conosce l’ubicazione, anche se i resti si trovano nelle mani di altre fazioni. Non impone invece al gruppo di recuperare autonomamente tutti i corpi disseminati nella Striscia, né di assumersi la responsabilità per quelli mai localizzati. È su questa distinzione che si gioca gran parte della battaglia narrativa. Tel Aviv parla di inadempienza, mentre Hamas sostiene di aver rispettato esattamente quanto sottoscritto, consegnando nove corpi e fornendo i dati in suo possesso sugli altri. La posizione statunitense si avvicina alla seconda lettura: Washington non considera le azioni di Hamas una violazione, ma piuttosto una questione tecnica legata alla complessità delle operazioni di recupero.
Le difficoltà nel recupero dei resti non sono nuove. Come dichiarato dallo stesso presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, il lavoro è lungo e “raccapricciante”: sotto le macerie giacciono molti corpi (almeno 10mila quelli palestinesi) e i resti devono essere recuperati e separati. Intanto, lo stesso Trump ha minacciato Hamas, chiedendo di fermare le esecuzioni delle bande armate da Israele. “Se Hamas continua a uccidere le persone a Gaza, che non era nell’accordo, non avremo altra scelta che entrare e ucciderle”, ha dichiarato giovedì. Precisando, in un momento successivo, che non saranno le truppe statunitense a farlo. L’avviso giunge pochi giorni dopo la dichiarazione con cui lo stesso presidente aveva detto di sostenere le azioni di “sicurezza” del gruppo palestinese. Sempre Washington ha fatto sapere che i collaborazionisti e le persone che temono di subire ritorsioni da parte di Hamas, saranno accolti all’interno di “zone cuscinetto” controllate dai militari israeliani.
Dietro questo scontro semantico si muovono fatti concreti che chiamano in causa Israele. Nonostante la tregua, l’esercito ha continuato a colpire la Striscia di Gaza, causando nuove vittime tra i civili. Questa, insieme ad altre inadempienze di Tel Aviv, rappresenta una grave violazione del cessate il fuoco: la prosecuzione delle operazioni militari israeliane, in contrasto con lo spirito e la lettera dell’intesa. Allo stesso tempo, Israele ha mantenuto rigide restrizioni sull’ingresso degli aiuti umanitari, ostacolando l’apertura completa del valico di Rafah e impedendo l’ingresso delle attrezzature necessarie per le squadre incaricate di localizzare e recuperare i corpi. I camion di aiuti umanitari che entrano nella Striscia non sono ancora abbastanza. Rimangono ben sotto i numeri concordati e mancano ancora medicine e attrezzature per le riparazioni. Anche se alcune cucine di comunità hanno ricominciato a preparare e distribuire pane e pasti, e nei mercati ritornano cibi che prima non esistevano, fame e carestia non sono scongiurate. Israele ha distrutto il sistema idrico e la crisi dell’acqua continua. È necessario il supporto internazionale e l’utilizzo di mezzi che a Gaza mancano. Mentre centinaia di camion di aiuti sono ancora bloccati nel lato egiziano di Rafah (da giorni Israele dichiara che si sta preparando all’apertura e comunicherà la data in seguito), i mezzi che attraversano gli altri valichi sono ritardati dalle ispezioni di Tel Aviv. Mentre gli attacchi continuano a fare vittime nella Striscia. I militari dichiarano di sparare alle persone che attraversano la “green line”, la linea verde dietro cui l’esercito israeliano si è ritirato, mantenendo il controllo di più di metà della Striscia. Ma questa linea non è reale, non esiste segno o confine a tracciarla e i militari sparano a persone che semplicemente provano ad avvicinarsi ai resti delle proprie abitazioni. Pagine Esteri