Pagine Esteri – Nei giorni scorsi le elezioni presidenziali in Bolivia hanno decretato la fine dell’esperienza di governo del “Movimento al Socialismo”, a lungo dominato da Evo Morales (2006-2019) e poi andato in pezzi a causa dei conflitti e delle contraddizioni interne e sotto la spinta dei tentativi golpisti messi in atto dagli ambienti di destra e dalle oligarchie economiche locali con il sostegno di Washington.
Al ballottaggio del 19 ottobre l’esponente del Partito Cristiano Democratico Rodrigo Paz Pereira l’ha spuntata sull’ex presidente Jorge Quiroga (già in carica dal 2001 al 2002), candidato dell’alleanza di destra “Libertà e democrazia”.
La vittoria di Paz Pereira riporta decisamente La Paz sotto l’ombrello statunitense. Il nuovo presidente ha già fatto sapere che ripristinerà le relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti, interrotte nel 2008 nel pieno di una crisi tra Morales e l’amministrazione Usa guidata da George W. Bush, sorta a seguito dell’espulsione dell’ambasciatore e dei funzionari dell’agenzia antidroga Dea. Paz Pereira ha anche annunciato che alla cerimonia di insediamento, in programma l’8 novembre, non inviterà i capi di Stato di Cuba, Venezuela e Nicaragua che, ha spiegato, «chiaramente non sono democrazie».
L’importanza della svolta registrata a La Paz è riflessa anche in un comunicato congiunto in cui dieci governi del continente americano – tra cui Stati Uniti, Argentina ed Ecuador – si dicono pronti «a sostenere gli sforzi dell’amministrazione entrante per stabilizzare l’economia della Bolivia e aprirla al mondo», una formulazione che si riferisce alla volontà di ridurre il più possibile gli interscambi e i progetti infrastrutturali con Pechino per rendere prioritari quelli con Washington.
La svolta in Bolivia avviene dopo la stabilizzazione del cambio di governo in Ecuador, con la rielezione ad aprile del presidente Daniel Noboa. Il pupillo di una delle principali famiglie dell’oligarchia economica locale ha battuto di nuovo Luisa Gonzalez, la parlamentare su cui aveva scommesso Rafael Correa – presidente dal 2007 al 2017 e attualmente in esilio in Belgio -, uno dei simboli della stagione del cosiddetto “socialismo del XXI secolo”. Noboa ha garantito piena collaborazione alla Casa Bianca – a partire dalla gestione dei migranti, ma anche sottoponendo a referendum la proposta di concedere alle forze Usa la base militare nelle Galapagos – e messo in campo l’obiettivo di un riequilibrio dei conti pubblici che passa anche attraverso la denuncia di contratti firmati in passato con Pechino, a partire da alcune grandi infrastrutture energetiche “pagate” con la cessione di petrolio a prezzi calmierati. La decisione di eliminare i sussidi pubblici finora garantiti per abbattere il prezzo del diesel ha però già spinto i movimenti indigeni a proclamare uno sciopero che dura ormai da oltre un mese.
Il recupero di Bolivia ed Ecuador non sembra però bastare all’amministrazione Trump, che ha scatenato un’offensiva economica e militare senza precedenti sia contro il Venezuela sia contro la Colombia mentre è impegnata a ristabilire il pieno controllo sul Canale di Panama, anche qui in contrasto con gli interessi cinesi.
Recentemente Washington ha decisamente aumentato le pressioni su Bogotà annunciando prima lo stop ai finanziamenti alla lotta contro la coltivazione e il traffico di droga, poi quelli allo sviluppo e poi promettendo l’imposizione di dazi per punire la presunta inazione nel contrasto ai trafficanti attribuita al “peggior presidente” della storia della Colombia, quel Gustavo Petro descritto addirittura come un potenziale leader di un “cartello” di narcotrafficanti.
Nei giorni scorsi l’Ufficio del Tesoro statunitenser per il controllo degli asset stranieri (Ofac) ha annunciato sanzioni nei confronti del presidente colombiano “in conformità con le leggi per il contrasto al narcotraffico”. Il segretario al Tesoro statunitense, Scott Bessent, ha affermato in una nota che «da quando Gustavo Petro è al potere, la produzione di cocaina in Colombia ha raggiunto i massimi da decenni, inondando gli Stati Uniti e avvelenando i nostri cittadini». Altre sanzioni sono state imposte al figlio e alla moglie di Petro e ad un funzionario governativo.
A maggio del 2026 la Colombia tornerà a votare per scegliere il presidente e Washington sembra voler intervenire con tutta la sua forza nell’appuntamento, tentando di delegittimare e isolare l’ex guerrigliero Gustavo Petro. “Casualmente”, il 21 ottobre scorso la Corte d’Appello di Bogotà ha cancellato la condanna a 12 anni inflitta a luglio in primo grado all’ex presidente di destra Alvaro Uribe, pronto a lanciare la sfida al primo capo di stato di sinistra del paese.
Petro ha denunciato con veemenza le sanzioni spiccate contro di lui, definendole un “atto di imperialismo e di colonialismo”. «Sono riusciti a trasformare la lista Clinton (la lista nera delle aziende e degli individui legati ai proventi del traffico di droga, emessa dal dipartimento del Tesoro Usa nel 1995) da uno strumento contro la mafia in uno strumento politico ed elettorale», ha accusato il presidente in un post su X. Petro ha puntato il dito contro «l’estrema destra radicata in Florida, che detesta qualsiasi tentativo di progresso latinoamericano». «Vogliono un’America Latina aperta ai loro affari, e il loro alleato è la mafia latinoamericana stessa», ha affermato in un altro messaggio, nel quale ha chiesto al popolo colombiano di «non lasciarsi ricattare».
Nel frattempo, gli Stati Uniti continuano a bombardare e ad affondare imbarcazioni in mare al largo delle coste venezuelane, uccidendone gli equipaggi – finora i morti sono stati quasi 50 – affermando che si tratta di narcotrafficanti, senza però produrre alcuna prova a supporto delle loro accuse.
Questa “guerra al narcotraffico” lanciata da Trump ha permesso a Washington di aumentare progressivamente il dispiegamento militare nella regione, raggiungendo i 10.000 soldati e un elevato schieramento di mezzi militari. Vicino alla costa venezuelana sono già presenti una nave delle forze speciali, un incrociatore lanciamissili, il gruppo d’assalto anfibio Iwo Jima e tre cacciatorpediniere lanciamissili. Anche due bombardieri B-52 della Louisiana sono stati visti sorvolare la zona per ore nei giorni scorsi, insieme agli elicotteri di un’unità d’élite dell’aviazione per operazioni speciali.
Secondo quanto riferito da alcuni funzionari statunitensi anonimi alla “Cnn”, Trump starebbe valutando la possibilità di «colpire strutture per la produzione di cocaina» e le rotte del narcotraffico all’interno del territorio del Venezuela. La notizia arriva dopo che il Pentagono ha disposto il dispiegamento della portaerei Uss Gerald R. Ford nel mare dei Caraibi.
Come se non bastasse la Casa Bianca non solo ha esplicitamente consentito le operazioni segrete della CIA nel paese, ma ha anche avvertito che «la prossima mossa sarà la terraferma».
È difficile dire se Donald Trump intenda veramente lanciare una invasione in grande stile contro il Venezuela o intenda ordinare una campagna di bombardamenti per gettare il paese nel caos e aprire la strada ad un colpo di stato che imponga a Caracas un regime amico. Alcuni analisti statunitensi pensano che la sola minaccia militare possa di per sé convincere Nicolas Maduro a farsi da parte e a permettere un cambio di regime indolore.
Certo è che in Venezuela e in Colombia l’allarme è ai massimi livelli. – Pagine Esteri














