Ci sono libri che non si limitano a raccontare un frammento di storia, ma diventano essi stessi un atto di memoria. Da Beirut a Gerusalemme di Ang Swee Chai, medico chirurgo originaria di Singapore e testimone diretta del massacro di Sabra e Shatila, è uno di questi. Pubblicato per la prima volta in Italia da Pagine Esteri (Spring Edizioni), nell’edizione curata dall’Associazione Per non dimenticare Odv, con la traduzione di Barbara Gagliardi e la prefazione di Michele Giorgio, il volume riporta al centro una verità che molti preferirebbero dimenticare: il sangue dei profughi palestinesi del 1982 non è mai stato lavato via, e la sua eco continua a risuonare oggi nelle rovine di Gaza.

La prefazione di Giorgio costruisce un ponte tra passato e presente. Ricorda che il filo che unisce Beirut a Gerusalemme, Sabra e Shatila a Gaza, è un filo di sangue e d’impunità. Come allora, anche oggi la popolazione civile palestinese è lasciata indifesa di fronte a un potere militare che parla la lingua della distruzione. Il massacro del 1982 — compiuto dalle milizie libanesi con la complicità dell’esercito israeliano — trova una dolorosa continuità nelle macerie del 2025, tra le città cancellate e la fame usata come arma. La memoria, suggerisce Giorgio, non è solo un dovere morale verso le vittime, ma una forma di resistenza contro l’oblio programmato.

Ang Swee Chai, invece, ci conduce dentro la carne viva di quella memoria. Il suo racconto inizia lontano, nella Singapore coloniale, tra una madre ribelle e un padre giornalista imprigionato dai giapponesi. È una formazione che unisce la disciplina orientale alla disobbedienza etica: la convinzione che la conoscenza debba servire a lenire la sofferenza, non ad accrescerla. Quando nel 1982, dalla tranquilla Londra, vede in televisione le bombe israeliane cadere su Beirut, la giovane chirurga capisce che non può restare spettatrice. Parte come volontaria, senza tutele né garanzie, rispondendo all’appello di un’umanità ferita.

Il viaggio che ne segue è un’iniziazione morale. A Beirut, Ang scopre una città divisa in due — Est cristiano e Ovest musulmano — e un mondo dove la morte non fa rumore. I capitoli in cui descrive il passaggio oltre la “linea verde” e l’arrivo nei campi profughi sono di una potenza cinematografica. Le bombe a grappolo, le ferite al fosforo, i corpi amputati: la guerra le appare come una macchina perfettamente razionale nel suo intento di annientare. Ma tra i corridoi del Gaza Hospital, gestito dalla Mezzaluna Rossa Palestinese, la vita resiste. Ang racconta i bambini che giocano tra le rovine, i medici che operano senza anestesia, la solidarietà che nasce dal dolore.

Colpisce la trasformazione del suo sguardo. Cristiana devota, cresciuta nella convinzione che Israele fosse “il popolo eletto”, Ang è costretta a rivedere tutto. L’incontro con i palestinesi — prima un professore di letteratura a Cipro, poi i rifugiati di Beirut — le svela la realtà dell’esilio e della pulizia etnica. In quelle vite spezzate riconosce l’ingiustizia universale. Da quel momento, la sua fede non si traduce più in cieca devozione, ma in compassione attiva. La chirurgia diventa un gesto politico: rimettere insieme corpi distrutti è un modo per opporsi alla disumanizzazione.

Il tono del libro alterna la precisione clinica del medico alla tenerezza di una cronista che si scopre parte della storia. Ogni pagina è intrisa di stupore e indignazione. Quando scrive del massacro di Sabra e Shatila — che vivrà in prima persona — la narrazione diventa incandescente, ma mai retorica. La forza di Ang Swee Chai è nella semplicità: racconta ciò che ha visto, ciò che ha toccato. Ed è proprio questa sobrietà che rende la sua testimonianza insopportabile e necessaria.

L’edizione italiana restituisce al lettore un documento essenziale in un tempo in cui la memoria palestinese è nuovamente sotto attacco. Come sottolinea Giorgio, “conservare la memoria di quei giorni insanguinati è fondamentale anche per parlare dell’oggi”. L’orrore del 1982 non è un capitolo chiuso, ma una lente attraverso cui leggere l’assedio di Gaza, la frammentazione della Cisgiordania, la complicità delle potenze occidentali.

Da Beirut a Gerusalemme non è soltanto un libro di memorie: è un atto d’accusa e insieme una dichiarazione d’amore per l’umanità. Ang Swee Chai non cerca vendetta, ma verità. La sua voce — ferma, lucida, profondamente empatica — ci obbliga a guardare. Ci ricorda che ogni guerra ha un nome, un volto, una storia. E che il silenzio, oggi come allora, è la forma più vigliacca della complicità. Pagine Esteri