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L’analista Munir Dahir, il mese scorso, su Yediot Ahronot ha tracciato un quadro a tinte fosche della hasbara, la diplomazia pubblica condotta dal governo e dalle istituzioni durante i due anni di offensiva israeliana a Gaza. Secondo Dahir, si sarebbe rivelata un fallimento totale la strategia di pubbliche relazioni e comunicazione adottata dall’esecutivo guidato da Benyamin Netanyahu per promuovere a livello internazionale l’immagine di Israele e delle sue azioni a Gaza. In linea con le conclusioni contenute nelle 136 pagine del «Grande Rapporto della Hasbara» sul comportamento dei rappresentanti israeliani negli ultimi due anni, Dahir ha scritto che «il fallimento del 7 ottobre non è stato solo militare, ma anche comunicativo, percettivo e morale». «Nell’era mediatica odierna, l’emozione prevale sulla logica», ha affermato.

Per Dahir, a generare l’onda di sdegno globale che ha accompagnato le varie fasi dell’offensiva contro Gaza non sarebbero state le decine di migliaia di morti palestinesi innocenti, tra cui bambini, né la fame causata dalla chiusura dei valichi, né gli ospedali danneggiati e circondati, e neppure gli oltre due milioni di civili costretti a scappare da un punto all’altro della Striscia su ordine dell’esercito. Il merito, sostiene, è tutto di Hamas, che avrebbe avuto la capacità di «presentare gli abitanti di Gaza come vittime», mentre Israele «appariva a gran parte del mondo come una macchina potente e priva di empatia. E dove non c’è empatia, non può esserci legittimità». Infine, esorta Israele «a plasmare la narrazione» invece di inseguirla.
Le considerazioni di Dahir non sono isolate in Israele. Diverse voci, negando o ridimensionando la gravità di quanto è accaduto e accade a Gaza, hanno sostenuto che il netto peggioramento dell’immagine di Israele, specie in Occidente, sarebbe avvenuto esclusivamente per la presunta «abilità» dimostrata dal movimento islamico nel presentare la Striscia in una certa maniera. Da qui l’esigenza, invocata da molti israeliani, di avviare un’ampia campagna di comunicazione e informazione per rimettere le cose nel «modo giusto». Il ministero degli Esteri ha già ricevuto, dal bilancio 2025, mezzo miliardo di shekel (circa 145 milioni di dollari) per il rafforzamento della hasbara. Per lo stesso fine, il governo nel suo insieme spende circa 40 milioni di dollari. Tuttavia, fino a oggi, sottolinea il giornale Israel HaYom, ne è stata utilizzata solo una parte.
Quei fondi, ha spiegato alla Knesset un alto funzionario del ministero degli Esteri, verranno ora investiti anche con la collaborazione di influencer nei paesi oggetto della campagna mediatica e con l’aiuto di «celebrità arabe» per migliorare l’immagine di Israele e spezzare l’alleanza tra «islamisti e sinistra, tra verdi e rossi». Il campo di battaglia digitale, naturalmente, è quello più coinvolto. Eurovision News Spotlight riferisce che l’Israel Government Advertising Agency nota come Lapam utilizza le piattaforme pubblicitarie di Google e Meta per promuovere le versioni del governo Netanyahu. Il Google Ads Transparency Center riporta che, nel 2024, Lapam ha sponsorizzato 2.000 annunci, 900 dei quali rivolti alla popolazione nazionale e 1.100 a un pubblico internazionale in paesi selezionati.
Il coinvolgimento di «celebrità arabe» è uno dei pilastri del rilancio della diplomazia pubblica israeliana. Il nome e le immagini che circolano di più in queste settimane sono quelli di Rawan Osman, una siriana cresciuta in Libano e ora residente in Europa. Di recente, Osman è apparsa in un podcast del giornale di Tel Aviv Maariv, in cui ha raccontato il suo percorso personale, da ragazza che avrebbe subito «campagne d’odio contro Israele» a donna che ha abbracciato il sionismo e la difesa dello Stato ebraico. «Migliaia di vite avrebbero potuto essere salvate se gli arabi avessero accettato il compromesso territoriale con Israele. È stato questo atteggiamento a portare a un conflitto così complicato», ha affermato.
Osman, ribadendo concetti espressi innumerevoli volte da rappresentanti israeliani, attribuisce la «radicalizzazione delle accuse» contro lo Stato ebraico «a un’agenda islamista che vuole la diffusione dell’Islam a livello globale» e alla «sinistra che sembra aver adottato un’agenda anarchica». Afferma inoltre che molti arabi, in privato, sarebbero dalla sua parte «ma non possono dirlo pubblicamente».
Questo articolo è stato pubblicato in origine dal quotidiano Il Manifesto
















