Quasi 16 milioni di cileni erano chiamati alle urne, il 16 novembre, per eleggere il successore del presidente Gabriel Boric, oltre che per rinnovare tutta la Camera (155 deputati) e metà del Senato (25 senatori). Per via del ripristino del voto obbligatorio (con relativa multa per i trasgressori) e dell’iscrizione automatica, si è registrato un altissimo tasso di partecipazione (oltre l’85%), il più alto nella storia del paese dal ritorno alla democrazia (1990).

Il primo turno delle elezioni generali ha promosso al ballottaggio, che avrà luogo il prossimo 14 dicembre, Jeannette Jara, candidata della coalizione di centrosinistra al governo (Unidad por Chile), con il 27% delle preferenze, e l’ultraconservatore José Antonio Kast, che ha ottenuto il 24%. Il terzo candidato, Johannes Kaiser, sempre di ultradestra, ha già detto che porterà a Kast il suo 14%, e così probabilmente sarà per il 19,5% dei voti ottenuti dal secondo, il populista Franco Parisi, e per il 12,7% totalizzato dalla destra tradizionale di Evelyn Matthei.

Stando così le cose, la destra supererebbe il 50% e riporterebbe il Cile di nuovo sulla sua sponda estrema, abbandonata dal paese alla fine della dittatura di Augusto Pinochet. Sdoganata ampiamente a livello internazionale, soprattutto dopo l’arrivo di Trump al governo degli Stati uniti, l’estrema destra non nasconde più il suo rimpianto per la dittatura.

Sia Kast che il terzo classificato, Kaiser, lo hanno dichiarato apertamente, promettendo di ripulire la fedina penale degli ex gerarchi e cavalcando il tema dell’insicurezza e della xenofobia contro i migranti (in Cile ve ne sono circa 2 milioni su una popolazione totale di 19 milioni).

Nonostante i ripetuti richiami di Jara a non lasciarsi “indurire il cuore” dalla paura e dall’ossessione securitaria, che non è la “risposta giusta alla criminalità”, l’estrema destra, seppur frammentata, ha trovato su questo punto un tema comune, dando addosso soprattutto ai venezuelani: un tempo immigrazione indotta e coccolata, ora, demonizzata e messa alla berlina.

E adesso, a meno di un’improbabile impennata d’entusiasmo da parte di quei settori popolari che hanno animato i lunghi mesi di protesta studentesca contro l’allora governo di Sebastián Piñera, nel 2011, anche il Cile seguirà il cammino della “motosega”, tornando a scommettere sull’ultraliberismo inaugurato dai Chicago Boys dopo la caduta di Allende. Il programma economico di Kast, il cinquantanovenne simpatizzante di Pinochet che è al suo terzo tentativo di occupare il palazzo de La Moneda con il suo Partito Repubblicano (PRCh) è chiaro.

Si basa su principi di neoliberismo radicale e del conservatorismo fiscale. Obiettivo principale è quello di ridurre drasticamente il ruolo dello Stato nell’economia, ripristinando e approfondendo il modello di libero mercato stabilito durante la dittatura di Pinochet: mediante una riduzione massiccia delle tasse (ai ricchi) e una drastica riduzione della spesa pubblica onde raggiungere rapidamente il famoso pareggio in bilancio e adempiere ai diktat del Fondo monetario internazionale.

La via intravvista è quella dei 30.000 licenziamenti degli impiegati statali attuati da Milei in Argentina, con il pretesto che “la burocrazia e le dimensioni dello Stato cileno soffocano l’economia”. Va da sé che questo implica la vendita di asset statali o la concessione di servizi pubblici a soggetti privati, l’eliminazione delle normative ambientali, del lavoro, di tutela pensionistica, e di tutte quelle che Kast ritiene di ostacolo all’impresa privata. Insomma, l’applicazione esasperata dello schema trumpista che si è esteso in Europa, e il ritorno in forze dell’ortodossia neoliberista e della deregulation del mercato.

A questo si aggiunge promessa di Kast di seguire i passi di Trump e Bukele anche sul tema dei migranti: espellendo gli oltre 300mila immigrati “irregolari” presenti nel paese, in maggioranza venezuelani; e anche quella di costruire muri al confine, rafforzare la polizia e inviare l’esercito nelle zone considerate ad alta criminalità.

Secondo vari analisti latinoamericani, fra i quali Pedro Penso, professore all’Università internazionale della Comunicazione (Lauicom), il risultato di domenica indica la “cronaca di un fallimento annunciato”, quello del processo di transizione post-Estallido Sociale del 2019: il riflesso della domanda di trasformazione radicale, proveniente dai settori popolari, orfani di una sinistra vera. Una domanda che non trova risposta nel programma della candidata progressista, allineato alle politiche del governo uscente, il cui indice di popolarità quest’anno non è mai salito sopra il 30%.

Jara negli ultimi mesi ha preso le distanze da Boric, il presidente “tiepido” sempre attento a non scontentare i poteri forti e a prendere le distanze dai “cattivi” (in primis dal Venezuela di Maduro). Ha cercato di far valere i suoi trascorsi nel governo perché, da ministra del Lavoro, ha firmato le poche riforme di successo, come l’aumento del salario minimo. Tuttavia, si è detta pronta a lasciare il Partito comunista se verrà eletta presidente, e ha subito lasciato intendere da che parte continuerebbe a guardare il Cile, affermando senza mezzi termini che in Venezuela c’è una “dittatura”.

 Tuttavia, a fronte dell’incombente minaccia degli Stati uniti, che mira a ricolonizzare tutto il continente, anche il tiepido Boric si è detto contrario a un’invasione armata contro il Venezuela.

Il suo lascito, però, non poggia da tempo sulle aspettative che aveva incarnato a seguito dell’Estallido sociale del 2019, l’ondata di proteste contro il sistema di potere imperante da trent’anni che, due anni dopo lo avrebbe portato alla presidenza. La sua vittoria al ballottaggio contro il candidato di estrema destra (anche allora José Antonio Kast), che rappresentava il ripristino dell’ordine conservatore, fu vista come la possibilità di attuare le riforme strutturali invocate dalle proteste del 2019 e di procedere a un rinnovamento radicale.

Ma i tentativi di riscrivere la Costituzione sono naufragati due volte (prima nella versione di sinistra, poi in quella della destra), insieme alle speranze della popolazione mapuche. Intanto, il 45% delle famiglie cilene dichiara di avere difficoltà ad arrivare a fine mese e il 72% ha contratto in questi anni qualche forma di debito. Una situazione di cui, com’è già accaduto in altre parti dell’America latina, e non solo, rischia di avvalersi una estrema destra arrogante e diretta, tutt’altro che frenata dai “tiepidi” e dal politically correct. Pagine Esteri