Entrare a Rashdiyeh non è semplice. Anche se si è stati invitati da una famiglia del campo, il militare libanese al checkpoint d’ingresso decide chi può proseguire e chi no. Restano fuori soprattutto gli stranieri, e questa consapevolezza è stata vissuta con particolare preoccupazione dal nostro tassista, Hassan. Ma sua moglie Amal ci ha fatto da spalla: “Verrò anche io con voi – ci ha detto – è più facile che facciano entrare una donna araba”. Amal è originaria proprio di Rashdiyeh. Ci ha vissuto fino a quando ha sposato Hassan, che viveva invece nel campo profughi di Sabra, a Beirut. Entrambi palestinesi, le loro famiglie sono state costrette da Israele a lasciare i propri villaggi, senza avere mai più la possibilità di farvi ritorno. Vivono da rifugiati con i loro quattro figli, grazie a lavori di fortuna e al sostegno delle Nazioni unite e delle organizzazioni umanitarie. In Libano, i palestinesi non hanno diritti né prospettive. Non possono acquistare una casa e gli è vietato svolgere decine di lavori.

Libano del Sud – Foto di Eliana Riva
Il permesso giornalistico non basta ad assicurarsi l’ingresso, ma per fortuna Amal aveva ragione e la nostra presenza nelle retrovie passa inosservata. Il campo profughi palestinese non è diverso da tanti altri del Libano. Le strade non sono tentacolari come quelle di Chatila, né claustrofobiche come ad Ain al-Hilwei ma la vita scorre alla stessa maniera. La macchina si ferma proprio davanti alla moschea di Al-Ghufran: dorata e scintillante è la più antica del campo e all’ora della preghiera la strada si riempie di decine di persone. Huda e la sua famiglia ci aspettano affacciati al balcone e dall’alto ci salutano sorridenti.

La moschea di Al-Ghufran – Foto di Eliana Riva
L’abbiamo incontrata per la prima volta tre anni fa, qui a Rashdiyeh. Non sapevamo, allora, che nel giro di un anno sarebbe cambiato tutto. Dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, Israele ha cominciato la sua campagna genocidaria sulla Striscia di Gaza, il gruppo libanese Hezbollah si è schierato al fianco dei palestinesi, rivendicando la fine del massacro, e Tel Aviv ha attaccato il Paese. Poi c’è stata la guerra con l’Iran e soprattutto la caduta di Bashar al-Assad in Siria. Ma Huda non è assolutamente cambiata. Sorridente, con il velo e il cappellino con la visiera nera. Sua mamma ci accoglie come fossimo parte della famiglia, i cibi di cui parliamo come per magia ci compaiono dinanzi, accompagnati da tè, caffè e dal fumo della Shisha.
Come nelle migliori tradizioni mediterranee, porteremo a casa con noi un vasetto di sottoli e un calore che ci fa tornare in pace con il mondo. Per farci spazio, l’intera famiglia si è stretta, senza neanche farcelo notare, e mentre il padre di Huda ci aiuta con gli incontri e le interviste, la piccola Aila, penultima arrivata, ci dà lezioni di arabo.
Tutta la famiglia Ibrahim Khalil Azzam, come molte altre, ha lasciato il campo dopo i bombardamenti e gli ordini di evacuazione israeliani. Alla fine di ottobre 2024 la situazione era particolarmente difficile: “Tutta l’area intorno a noi era diventata deserta, spaventosa e deprimente”, ci dice Huda. Trovarono un furgoncino e partirono verso il nord con i nonni. Ma il padre rimase a casa: temevano che la storia si ripetesse, che l’esercito israeliano entrasse nei campi e gli uomini dovevano difendere le proprie case. Il flusso di sfollati dal sud era impressionante e il viaggio durò più di 15 ore. Restarono al nord per tre mesi, in condizioni difficili, pagando un canone di locazione cinque volte più alto del normale per una casa senza riscaldamento, acqua, elettricità. Un popolo di sfollati, costretto in una terra che non è la propria, obbligato ancora una volta ad andar via. “Siamo arrivati al nord – continua Huda – che l’inverno era alle porte. Ognuno di noi ha portato con sé i suoi documenti e due cambi, niente di più. Il freddo ha reso tutto più difficile, dove eravamo non c’erano negozi né supermercati. La casa non aveva neanche i mobili. Immagina di non avere lavoro ma di dover comunque provvedere a tante cose essenziali, ognuna delle quali costa molto più del suo prezzo originario”. E poi erano quasi esclusivamente donne, cinque ragazze con la madre e i due nonni anziani.

La famiglia Ibrahim Khalil Azzam – Foto di Eliana Riva
Dopo il cessate il fuoco riuscirono finalmente a tornare a casa. Il campo, intanto, era stato bombardato diverse volte e un’intera abitazione non lontana da quella della famiglia Azzam era stata distrutta. Il missile causò una strage: almeno 17 morti, tra cui molti bambini. L’esplosione fu talmente forte che alcuni corpi vennero smembrati e furono ritrovati a centinaia di metri di distanza. Ci si rese conto solo dopo giorni che alcuni resti pendevano da un albero. Zuhair Kassem, il presidente dell’associazione sportiva che gestisce lo stadio di Rashdiyeh, ci mostra il luogo in cui lui stesso ha trovato un corpo martorizzato. Era lontano un chilometro dall’esplosione, proprio sull’erba del campo, a pochi metri dagli spalti. Tutto intorno allo stadio ci sono tre scuole dell’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei profughi palestinesi in Libano. Accanto al cratere lasciato dal missile c’era un parco giochi per bambini. Un filmato, girato subito dopo l’esplosione, mostra un padre che fugge con in braccio un bambino, mentre chiede disperato dove siano i suoi figli. Zuhair continua a ripeterci che i resti che ha trovato pesavano sette chili. Solo sette chili, perché non era un corpo intero ma una piccola parte. Dopo un anno, il cratere è stato ricoperto ma le macerie sono in parte ancora lì, come ciò che rimane della casa distrutta. Ci passano ogni giorno tantissime persone, mezzi, molti bambini che vanno e tornano da scuola.

Bombardamento israeliano al campo profughi palestinesi di Rashdiyeh, nel sud del Libano – Foto di Eliana Riva
Il cessate il fuoco non ha spento i timori di un nuovo attacco. In un anno Israele non ha mai fermato i suoi raid: a sud, a Beirut, nella Bekaa a nord. Quello del 18 novembre ad Ain al-Hilwei ha ammazzato 13 persone. Anche questa volta, tra le vittime molti adolescenti. Le proteste del governo libanese rimangono inascoltate, così come gli appelli dei governi arabi e occidentali: Israele intende colpire chiunque e ovunque voglia, senza alcun timore di poter essere fermato. Lo sanno bene i palestinesi, che rimangono i bersagli favoriti di Tel Aviv a Gaza, in Cisgiordania, in Libano. Le vaghe giustificazioni rilasciate dallo stato ebraico parlano sempre di “obiettivi” di Hamas o di altre organizzazioni armate, di combattenti, anche se tra le vittime i civili (soprattutto bambini) sono tantissimi. Ma poi, sarebbe legittimo utilizzare le bombe per impedire a un popolo oppresso, occupato e sfollato, di combattere per la propria identità, per il diritto al ritorno nella propria terra?
Huda si è da poco sposata. Non ha potuto farlo dove avrebbe voluto, perché con il suo passaporto da rifugiata è difficile ottenere il visto per viaggiare. Ma se tutto andrà come deve, tra qualche mese lascerà il campo per cominciare una nuova vita. Dovrà farlo però senza la sua famiglia, che probabilmente non potrà mai visitare il Paese in cui risiederà né vedere la sua nuova casa. Dopo anni di visti negati, tanti ragazzi e ragazze dei campi profughi palestinesi scelgono di lasciare il Libano illegalmente. Molti hanno perso la vita in mare o lungo le traversate. La salutiamo dicendole che sarebbe bello, un giorno, poter ricambiare l’ospitalità. “Inshallah” ci risponde, con un sorriso che è insieme speranza e consapevolezza. Pagine Esteri
















