A oltre due mesi dalla conclusione del cessate il fuoco tra Israele e Hamas – che solo formalmente ha messo fine a due anni di offensiva devastante di Tel Aviv nella Striscia di Gaza – regna una tensione profonda caratterizzata da promesse incompiute e da una realtà sul terreno che smentisce ogni retorica sulla fine del conflitto.

L’accordo fondato sul piano Trump in 20 punti e firmato a Sharm el Sheikh avrebbe dovuto segnare l’inizio di una transizione verso il ritiro delle forze di occupazione israeliane, la ricostruzione di Gaza e verso la fine reale delle ostilità. Prevede anche il disarmo di Hamas, la sua non partecipazione al governo futuro di Gaza e l’avvio di un meccanismo politico internazionale. Ma su molti di questi punti non c’è mai stata un’intesa piena. Pesano soprattutto le pressioni e le strategie di Israele che continua a lanciare raid ed attacchi su Gaza e non mostra segni di volersi ritirare completamente.

Lo scorso 9 ottobre Israele e Hamas hanno firmato un accordo limitato, circoscritto alla prima fase del piano Trump. Il cessate il fuoco ha consentito il rilascio di tutti i 20 ostaggi israeliani ancora in vita, la restituzione dei corpi di 27 ostaggi deceduti, con un corpo rimasto a Gaza, e la liberazione di circa duemila prigionieri palestinesi, 250 dei quali condannati all’ergastolo. Lo scambio ha previsto anche la restituzione dei corpi di palestinesi uccisi per ogni salma consegnata di ostaggi israeliani deceduti. Su questo piano, almeno formalmente, gli impegni sono stati rispettati, anche se con ritardi e tensioni.

Molto diversa è la situazione sul fronte umanitario. Nonostante gli accordi presi, Israele fa entrare a Gaza un numero di camion di aiuti inferiore a quanto concordato. Le agenzie umanitarie confermano che i flussi di assistenza sono ben al di sotto del fabbisogno reale e denunciano il blocco di beni essenziali. Il valico di Rafah, che avrebbe dovuto riaprire già nella prima fase del cessate il fuoco, resta chiuso, anche se Israele ha annunciato la sua “prossima” riapertura almeno in uscita verso l’Egitto.

Intanto Gaza continua a essere un territorio in rovina. Tra macerie e palazzi sventrati, i residenti recuperano sbarre di ferro dai resti degli edifici per costruire tende di fortuna. L’Unicef parla di un numero “incredibilmente alto” di bambini gravemente malnutriti, mentre le piogge intense di queste ultime settimane hanno allagato migliaia di tende, diffondendo liquami e rifiuti e aggravando una crisi sanitaria già drammatica.

Nonostante la tregua, il fuoco israeliano contro civili nei pressi della linea di demarcazione e durante operazioni che Tel Aviv definisce “mirate” contro Hamas ha ucciso circa 400 palestinesi. Da parte loro militanti di Hamas e di altre organizzazioni hanno compiuto alcuni attacchi contro le forze di occupazione, uccidendo almeno tre soldati.

Rimangono irrisolte le questioni più delicate. Una forza internazionale di stabilizzazione è prevista per garantire sicurezza e ordine, ma composizione, mandato e ruolo restano avvolti nell’incertezza. Ne hanno parlato gli Stati uniti e decine di altri paesi a inizio settimana a Doha senza raggiungere risultati apprezzabili. Si è appreso anche di un possibile coinvolgimento di Indonesia e Pakistan. Israele però insiste affinché questa forza abbia il compito di disarmare Hamas, una missione che nessun paese pare disposto ad assumersi.

Anche il futuro politico di Gaza è sospeso. Il piano prevede un organismo tecnocratico palestinese, senza la partecipazione di Hamas, incaricato di governare nella fase di transizione. Non esistono però annunci ufficiali su tempi e modalità della sua formazione. L’Autorità Nazionale Palestinese dovrebbe poi subentrare, ma solo dopo riforme imposte da Usa e Israele, non meglio specificate. A supervisionare l’intero processo dovrebbe essere un cosiddetto Consiglio per la Pace presieduto da Trump, il cui annuncio è stato rinviato all’inizio del 2026 e la cui composizione resta poco chiara.

Il movimento islamista ha ribadito di non essere disposto a rinunciare alle armi senza la creazione di uno Stato palestinese. Il piano Trump lega ulteriori ritiri israeliani all’interno di Gaza proprio a questo passaggio, creando un circolo vizioso che alimenta lo stallo. Israele ha più volte avvertito che, in assenza di un disarmo concordato, potrebbe tornare all’offensiva militare che ha già raso al suolo gran parte di Gaza.

Molti pensano che l’attuale situazione sia destinata a congelarsi. A Gaza e in Cisgiordania ritengono che Israele non completerà mai il ritiro, impedirà una vera ricostruzione per mantenere la Striscia in uno stato di rovina permanente. Gli schieramenti militari e alcuni piani di costruzione suggeriscono una possibile divisione di fatto dell’enclave, con un’area sotto controllo diretto israeliano (zona gialla), dove Tel Aviv ha appoggia gruppi armati anti Hamas, e un’altra (area verde) controllata dal movimento islamista, priva di ricostruzione e servizi.

Le prospettive di accordo a lungo termine appaiono più remote che mai. La sfiducia reciproca ha raggiunto livelli senza precedenti e la soluzione dei due Stati (Israele e Palestina) ormai è irrealizzabile di fronte alle politiche sul terreno di Israele, nonostante il crescente riconoscimento internazionale di uno Stato palestinese. Il piano Trump parla di autodeterminazione e sovranità come aspirazioni legittime del popolo palestinese, ma il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu le ha più volte escluse. Le elezioni in Israele sono previste per il 2026, ma non vi sono segnali che un eventuale nuovo governo sia disposto ad accettare l’indipendenza palestinese.