Dopo le dichiarazioni rilasciate in seguito all’attacco del 13 dicembre, che ha causato l’uccisione di due militari statunitensi e di un contractor nell’area di Palmira, nel deserto siriano, per mano di un miliziano dello Stato Islamico, il presidente americano aveva affermato che l’azione non sarebbe rimasta senza conseguenze, promettendo davanti ai media statunitensi «ritorsioni molto gravi: ci vendicheremo».
Il 19 dicembre, l’aviazione statunitense, con il supporto e la partecipazione di jet giordani, ha lanciato l’operazione Hawkeye (operazione Occhio di Falco, nella sua traduzione italiana). Il Comando Centrale delle Forze Armate degli Stati Uniti ha dichiarato di aver colpito oltre 70 obiettivi dell’ISIS in Siria, utilizzando aerei da combattimento, elicotteri d’attacco e artiglieria, in diverse località della Siria centrale. Un dispiegamento militare su larga scala, come non se ne vedevano da tempo, con attacchi che hanno interessato diverse aree della regione.
Fonti locali riferiscono che la maggior parte dei bombardamenti si sarebbe concentrata nell’area desertica di Deir ez-Zor, dove sembrano essere attive cellule dormienti dell’ISIS, probabilmente a retaggio della battaglia di Baghuz, che nel 2019 segnò la fine della presenza territoriale dell’organizzazione in Siria: una fine tuttavia solo formale, che non coincise con una sua reale sconfitta.
Secondo fonti americane, gli attacchi avrebbero preso di mira «combattenti, infrastrutture e depositi di armi dell’ISIS» e sarebbero stati concepiti come una rappresaglia, più che come l’inizio di un conflitto su scala più ampia nel territorio siriano. In un comunicato ufficiale, il Comando Centrale statunitense ha affermato che «questa operazione è fondamentale per impedire all’ISIS di ispirare complotti terroristici e attacchi contro il territorio degli Stati Uniti». L’azione americana non si è limitata tuttavia solo al 19 dicembre, ma si è inserita in una più ampia offensiva che, a partire dal 13 dicembre, ha visto le forze statunitensi condurre dieci operazioni tra Siria e Iraq, le quali, secondo la ricostruzione americana, avrebbero portato alla morte o alla detenzione di 23 militanti jihadisti. (1)
Trump ha inoltre dichiarato ai media che il governo siriano ha pienamente sostenuto i bombardamenti, appoggiando la natura politica e militare dell’azione. Le dichiarazioni del presidente americano arrivano dopo che, nel mese di novembre, la Siria era stata accolta come 90° membro della coalizione globale contro l’ISIS, sotto la guida dell’autoproclamato presidente Ahmed al-Sharaa, noto anche come Abu Mohammad al-Jolani, se si vuole ricordare il suo passato nelle file del movimento islamista Jabhat al-Nusra.
L’appoggio del governo di Ahmed Al-Sharaa alle incursioni americane avviene anche a poche ore dalla dichiarazione della sospensione ufficiale del Caesar Act, sancita dalla firma presidenziale del National Defense Authorization Act, approvato da entrambe le Camere del Congresso statunitense e divenuto legge il 19 dicembre 2025.
Il Caesar Syria Civilian Protection Act (Caesar Act), approvato dal Congresso americano nel 2019 ed entrato in vigore nel 2020, prevedeva un vasto regime di sanzioni che colpivano l’intero sistema economico siriano. Le misure interessavano in particolare le industrie legate alle infrastrutture, alla manutenzione militare e al settore energetico, imponendo al contempo un veto ai finanziatori esteri e impedendo di fatto nuovi investimenti nel Paese. Le sanzioni contribuirono così a mettere in ginocchio un’economia già gravemente provata da anni di guerra. Presentato dagli Stati Uniti come uno strumento per indebolire il governo di Bashar al-Assad, il Caesar Act finì per colpire soprattutto la popolazione civile, alimentando povertà e malcontento e impedendo, di fatto, un reale processo di ricostruzione postbellica della Siria.
Il percorso verso l’abrogazione del provvedimento era stato annunciato da Trump il 13 maggio 2025, durante una visita in Arabia Saudita, storica alleata degli Stati Uniti in Medio Oriente e da tempo schierata contro l’asse economico e politico che legava il precedente governo siriano all’Iran.
Dopo la caduta del governo di Bashar al-Assad, Riyadh aveva infatti avviato una serie di proposte di investimento in Siria, culminate nel luglio 2025 con l’arrivo a Damasco di una delegazione saudita, con la prospettiva di firmare accordi per un valore compreso tra quattro e sei miliardi di dollari. Quattro società energetiche saudite avrebbero successivamente firmato accordi con la Syrian Petroleum Company per sostenere lo sviluppo dei giacimenti di petrolio e gas nel Paese. Gli accordi prevederebbero la gestione e l’ampliamento di cinque giacimenti di gas, aprendo così la strada a un radicamento strutturale degli interessi sauditi sul territorio siriano.
Investimenti che, ad oggi, non sembrano produrre benefici concreti per la popolazione, che continua a vivere in larga parte in condizioni di profonda povertà, soprattutto nelle aree rurali. L’accesso ai bisogni primari resta fortemente limitato: la fornitura di elettricità è discontinua e non copre l’intero territorio nazionale, e in alcune zone l’uso dei generatori rappresenta l’unica fonte di luce e riscaldamento. Ampie porzioni del Paese risultano inoltre ancora contaminate da mine e ordigni inesplosi, che continuano a mietere vittime civili, mentre i salari medi restano estremamente bassi, insufficienti a garantire alle famiglie un sostegno economico reale e duraturo.
Così, mentre Washington e la comunità internazionale celebrano firme e dichiarazioni, e mentre i cieli della Siria tornano a essere attraversati da bombardieri e jet alleati, sul terreno cambia poco per chi vive il paese ogni giorno; un paese, la Siria, dove ad oggi il significato del termine «ricostruzione» continua a restare un concetto astratto.
Note:
- CENTOCOM “ Launches operation Heykeye Strike Against ISIS in Syria” 19/12/2025
















