Il 2025 si chiude con un parossismo mediatico che ricalca i capitoli più oscuri della storia latinoamericana. Un editoriale del New York Times, citando fonti anonime della CIA, ha diffuso la notizia di un presunto “attacco di terra” nel territorio venezuelano. Un’azienda chimica situata nello stato venezuelano di Zulia (nord-ovest), al confine con la Colombia, ha smentito le voci circolate sui social media che collegavano un incendio avvenuto la vigilia di Natale nelle proprie strutture all’annuncio del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, riguardo a un attacco contro una non meglio precisata “grande installazione” venezuelana, su cui il tycoon si era rifiutato di fornire dettagli ai giornalisti.
In un comunicato, Primazol de Venezuela ha precisato che il rogo è stato causato da un “incidente elettrico” all’interno del sistema di cablaggio del proprio magazzino. L’azienda ha indicato di essere giunta a questa conclusione a seguito di un’indagine volta a determinare le cause dell’incendio, scoppiato alla mezzanotte del 24 dicembre. Una data che è coincisa con l’annuncio di Trump sull’attacco condotto nel quadro della sua “campagna contro il narcotraffico nei Caraibi”, pretesto per un’operazione di pirateria su larga scala per appropriarsi del petrolio venezuelano.
Il conflitto, infatti, è tutt’altro che di natura morale. Il Venezuela siede sulle più grandi riserve di greggio del pianeta, oltre 300 miliardi di barili. In una fase di transizione energetica e instabilità eurasiatica, è per Washington intollerabile che questa risorsa resti fuori dall’orbita delle proprie multinazionali. Donald Trump, affiancato dal segretario di Stato Marco Rubio, ha formalizzato il “Corollario Trump” alla Dottrina Monroe: un’affermazione di egemonia che ignora la sovranità delle nazioni a sud del Rio Grande.
Mentre l’opposizione interna agisce come terminale politico degli interessi transatlantici, gli Stati Uniti intensificano l’operazione “Southern Spear” (Lanza del Sur). Il sequestro delle navi cisterna M/T Skipper e M/T Centuries in acque internazionali non è un atto di giustizia, ma di evidente pirateria moderna. La giustificazione di Washington, che lega il petrolio di PDVSA al finanziamento del terrorismo, è un artificio giuridico privo di fondamento internazionale, volto a normalizzare l’incriminazione delle catene di approvvigionamento energetico.
Questa la denuncia avanzata dai rappresentanti del Venezuela all’Onu, dai movimenti popolari, da presidenti progressisti dell’America latina e anche da un gruppo di esperti Onu, che ha condannato le esecuzioni extragiudiziarie compiute da Trump nei Caraibi e nel Pacifico (oltre 107). I relatori speciali dell’ONU hanno definito questo blocco navale come un “attacco armato” ai sensi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, conferendo al Venezuela il diritto alla legittima difesa.
Nelle aule della FAO a Roma, Venezuela, Russia, Cina, Bielorussia, Cuba e Nicaragua hanno denunciato l’uso del cibo come arma politica: le misure coercitive unilaterali (MCU) sono fattori strutturali di insicurezza alimentare. Limitando l’accesso a sementi e tecnologia, l’imperialismo sabota l’obiettivo “Fame Zero” delle Nazioni Unite.
Intanto, mentre l’estrema destra venezuelana cerca di accreditare all’estero la tesi di un “collasso imminente” del processo bolivariano e di un altrettanto imminente attacco di Trump, il ministro della Difesa, il generale Vladimir Padrino Lopez dichiara nuovamente che l’unità della Forza armata nazionale bolivariana (Fanb) è granitica, e che l’unione civico-militare garantisce la piena stabilità di un territorio che, nonostante minacce e attacchi, vive oggi “una fase di pace sociale interna senza precedenti”.
Anche i dati macroeconomici del 2024-2025 indicano una tendenza alla stabilizzazione, pur messa alla prova da un rinnovato attacco alla moneta con i soliti picchi di alta inflazione. Nonostante il sequestro di oltre il 90% delle entrate potenziali dovuto alle sanzioni, il Venezuela ha registrato una crescita sostenuta del PIL, la più alta del continente.
La cooperazione con il blocco eurasiatico e una decisa diversificazione produttiva hanno permesso al settore agricolo di raggiungere livelli di autosufficienza record in prodotti base come riso e mais. La politica di contenimento dell’inflazione ha favorito una parziale ripresa del potere d’acquisto, riducendo la pressione economica interna.
È proprio questo successo, ottenuto in condizioni di assedio, a scatenare l’aumento delle provocazioni statunitensi: l’impiego di droni MQ-9 Reaper e l’intensificazione delle incursioni navali nel Caribe non sono risposte a un pericolo interno, ma tentativi di sabotare la normalizzazione del paese.
Per giustificare l’intervento, Trump ha designato 24 organizzazioni criminali latinoamericane, tra cui il venezuelano “Tren de Aragua” (da tempo sconfitto dall’azione del governo bolivariano), come Organizzazioni Terroristiche Straniere (FTO). Questa mutazione semantica — dal crimine al terrorismo — serve a inquadrare i governi regionali come “protettori di terroristi”. Tuttavia, l’egemonia statunitense è in erosione. Nel 2000, gli Stati Uniti gestivano il 50% delle importazioni latinoamericane; oggi la cifra è scesa al 29%. Cina e Russia sono diventate i principali partner commerciali di Brasile, Perù, Cile e Bolivia. Il greggio venezuelano “Merey 16” alimenta ormai le raffinerie asiatiche, mentre la tecnologia Huawei offre a Caracas uno scudo tecnico contro lo spionaggio.
Il tentativo di Trump di condizionare prestiti o di imporre tariffe punitive al Brasile di Lula non fa che accelerare la ricerca di alternative. Le infuocate dichiarazioni del presidente colombiano Gustavo Petro sulla necessità di cacciare le truppe Usa dal suo paese e dai territori latinoamericani mirano a ravvivare lo spirito indipendentista bolivariano della “Patria grande”. Una fiamma che, nonostante il ritorno a destra di parecchi governi latinoamericani, potrebbe portare a un nuovo ciclo di lotte, annunciate dalle proteste in Bolivia, in Ecuador o da quelle contro i brogli in Honduras.
Il quadro che emerge mostra il paradosso geopolitico che smentisce la retorica nordamericana: mentre il Venezuela mantiene la pace interna e consolida i propri indicatori economici, sono gli Stati Uniti a proiettare instabilità e violenza nel bacino del Caribe. E così, la resistenza della Rivoluzione Bolivariana non appare solo la difesa di un governo, ma la difesa del diritto di un intero continente a non essere più il “cortile di casa” di nessuno.
Nell’analisi di molti marxisti latinoamericani, oggi all’imperialismo è caduta la maschera e, dopo il genocidio in Palestina, legalità e moralità sono esili foglie di fico. Un contesto che, per il presidente venezuelano Nicolas Maduro, apre maggiori brecce alla possibilità di un’alternativa popolare a livello mondiale. Un contesto che richiede di essere all’altezza dello scontro contrastando le versioni di comodo e rafforzando una contro-egemonia a livello simbolico e culturale.
Dalle redazioni di Manhattan ai corridoi di Langley, la riattivazione della Dottrina Monroe passa infatti anche per la guerra cognitiva tesa a cambiare le carte in tavola, nascondendo portata e finalità del ricatto alimentare e del blocco navale: la strategia per il controllo delle riserve energetiche e il tentativo di frenare la ripresa economica di una nazione sovrana, preparando l’opinione pubblica a un’eventuale aggressione militare. “Noi siamo un popolo allegro, ma attento ai dettagli – ha detto il ministro degli Interni Giustizia e Pace, Diosdado Cabello -: con una mano reggiamo il fucile, con l’altra ci diamo un abbraccio”.

















