di Julie Kebbi e Stéphanie Khouri – L’Orient Today – Ottobre 2020
Traduzione dall’inglese di Elena Bellini
Nonostante i recenti accordi di normalizzazione abbiano scosso l’intera regione, la cooperazione tra lo Stato ebraico e le capitali del Golfo non è un fenomeno nuovo, ed è in corso da decenni. Un trattato militare mascherato da “accordo di pace”. Gli Accordi di Abramo vengono considerati da un certo punto di vista come una riorganizzazione dell’asse anti iraniano. Che la si appoggi o la si critichi, quest’interpretazione ha il merito di ricordare una realtà a volte dimenticata, oscurata dal discorso politico ambientale. Il patto del 15 settembre, firmato a Washington con l’obiettivo di normalizzare le relazioni tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrain, non fa altro che confermare, in veste più ufficiale, una serie di rapporti finora tenuti segreti. Gli accordi, già prima esistenti, si basano soprattutto sulla convergenza di interessi in tema di sicurezza.
La relazione segreta tra Israele e gli Stati del Golfo è iniziata nei primi anni ‘90, quando le politiche di Tel Aviv, Riyadh e Abu Dhabi cominciarono ad allinearsi intorno ad una preoccupazione condivisa per la sicurezza e a nemici comuni: l’Iran e la presenza della Fratellanza Musulmana nella regione. Un po’ alla volta, le affinità iniziarono a diventare più evidenti: all’inizio degli anni 2000, questi Paesi scoprirono di avere in comune il desiderio di sviluppo tecnologico di sistemi di sorveglianza. Pubblicamente, tali relazioni si limitavano a qualche ristretto contatto. “Una delle prime forme di aperta collaborazione ebbe luogo nel 2015: la missione diplomatica israeliana all’IRE-NA (Agenzia Internazionale per l’Energia Rinnovabile) di Abu Dhabi”, racconta Elham Fakhro, consulente dell’International Crisis Group ed esperto del Golfo.
Ma il resoconto non ufficiale delle relazioni racconta una storia diversa. Dietro le quinte, si dice che, nei decenni precedenti, i legami tra questi Paesi si siano sviluppati intorno alla cooperazione militare. “Le società israeliane, sotto la supervisione del Ministero della Difesa, avrebbero venduto nuove armi agli Emirati Arabi Uniti, principalmente missili di rilevamento”, sostiene Fakhro. Nel 2009, sarebbe fallito un patto segreto per l’acquisto di droni israeliani (UAV) da parte degli Emirati Arabi Uniti, perché bloccato all’ultimo momento dal Ministero della Difesa israeliano. I media hanno anche riferito di un incontro tra i leader sauditi e quelli israeliani, nel 2018 a Washington DC, mentre giravano voci sull’acquisto da parte dell’Arabia Saudita di droni israeliani attraverso un intermediario sudafricano. Comunque, a livello ufficiale non è filtrato niente. “Non ci sono informazioni che possano essere usate come prova del trasferimento di armamenti tra gli Stati”, sottolinea Aram Nerguizian, consulente senior per le relazioni civili-militari ed esperto di Paesi arabi al Carnegie Middle East Center. Ma se le voci si diffondono così facilmente, nonostante la mancanza di notizie fondate, è perché rispecchiano i diversi programmi dei singoli Stati.
A caccia di dissidenti
Le ambizioni industriali e militari di Tel Aviv trovano ottimo riscontro nella sete di armamenti e nella fame di tecnologia della Penisola Araba. L’ossessione per la sicurezza ha reso il settore degli armamenti, della difesa e della tecnologia una delle priorità degli Stati del Golfo, che sono tra i maggiori importatori di armi. L’Arabia Saudita, detentrice del quarto budget militare al mondo, pone lo sviluppo del proprio arsenale in cima alla lista delle priorità nel proprio quadro strategico “Vision 2030”. Gli Emirati Arabi Uniti, il cui budget per la difesa è cresciuto del 41% nel 2019, sono la potenza militare emergente nella regione. Per questi due Stati, si tratta quindi di garantire attrezzature all’avanguardia, una capacità interna di dispiegamento per poter assicurare la difesa del territorio e attuare, potenzialmente, interventi in altri Paesi. “Il Golfo ha un’esplicita esigenza di missili di difesa a corto, medio e lungo raggio, come anche di sistemi anti-drone”, spiega Nerguizian. “Insieme alla difesa informatica, questi sono settori in cui Israele ha investito molto in termini di tempo e risorse”. Dal punto di vista israeliano, la crescita e la progressiva specializzazione dell’industria della difesa ha posto il Paese in ottava posizione tra le potenze che esportano armi, il cui commercio è aumentato del 77% tra il 2015 e il 2019. I principali destinatari continuano sicuramente ad essere le regioni asiatiche del Pacifico, l’Europa e il Nord America.
Ma il Golfo rappresenta un concreto potenziale per le società del settore. “Come ogni industria bellica, quella israeliana è alla ricerca di opportunità e mercati attrattivi. Il sostegno dei governi non può far altro che facilitarne l’accessibilità” spiega Nerguizian. “Tutti questi diversi approcci alla cooperazione individuano nuove potenzialità laddove già esistono legami bilaterali”. All’interno dell’industria israeliana, lo sviluppo particolarmente rapido del controllo informatico fornisce l’offerta che meglio risponde alla domanda dei regimi sauditi e degli emirati, che sono maggiormente in grado di sbloccare grandi budget per potenziare la caccia ai dissidenti.
Nel 2020 lo Stato ebraico si è classificato sesto su scala mondiale nel Global Startup Ecosystem Report. Nel 2019, le sue esportazioni di prodotti e servizi correlati alla sicurezza informatica hanno raggiunto i 6,5 miliardi di dollari. Anche in questo caso, l’offerta israeliana risponde al desiderio delle monarchie della regione di padroneggiare nuove tecnologie. In un ventennio, l’aumento di social networks e smartphones, seguito dalle Primavere Arabe, ha cambiato le regole del gioco, ricreando la pubblica piazza all’interno della sfera virtuale. I networks si sono rivoltati contro i regimi autoritari, assicurando alla gente la libertà di espressione e, soprattutto, la possibilità di organizzare con discrezione le proteste in piccoli gruppi o via chat private che oltrepassano i confini nazionali. Ma c’è un rovescio della medaglia: questi governi, considerando il crescente dissenso popolare nel territorio come una minaccia ai poteri forti, possono tracciare i dissidenti attraverso gli spyware. “Questa nuova era è caratterizzata da una vasta sorveglianza online e da un filtro selettivo dell’informazione da parte delle autorità, che usano le più sofisticate tecnologie importate dalle fonti più disparate, tra cui anche alcune democrazie europee e canadesi”, racconta Khalid Ibrahim, direttore esecutivo del Gulf Center for Human Rights. “La cooperazione tra Israele e gli Stati del Golfo risale a prima della Primavera Araba”.
Non è stata, quindi, innescata dalla Primavera Araba, ma quest’ultima può aver costituito uno degli elementi che l’ha prolungata”, sostiene Sarah Aoun, direttore del dipartimento di tecnologia del Open Technology Fund, un’organizzazione no-profit statunitense che promuove la libertà in rete. Per esempio, il “Falcon Eye”, sistema di sorveglianza “intelligente” installato nella città di Abu Dhabi, è frutto della mcollaborazione, nata nel 2007, tra gli Emirati Arabi Uniti e la società israeliana “4D Security Solutions”. L’Arabia Saudita ha chiesto l’assistenza di società israeliane specializzate in cybersicurezza anche nel 2012, in seguito all’attacco informatico del virus Shamoon, attribuito dall’intelligence statunitense all’Iran, contro la società petrolifera nazionale saudita Aramco. Il Bahrain, dal canto suo, ha ricevuto l’offerta di servizi dalla Verint Systems, una società israeliana i cui sistemi vengono utilizzati da centri di sorveglianza per raccogliere dati sui social network. Secondo fonti citate da Haaretz, alcuni team israeliani si sarebbero recati in Bahrein con passaporti stranieri per addestrare i funzionari governativi all’uso dei loro prodotti.
Spyware
Nel settore della sorveglianza, la compagnia israeliana NSO è oggi una delle più famose della regione, grazie in particolare al software Pegasus. Il programma, che può essere gestito da remoto, consente l’accesso a un gran numero di dati su un dispositivo: foto, video, chiamate e applicazioni. Può recuperare password o addirittura far partire una registrazione audio. “L’NSO è famosa per aver sviluppato alcune delle più sofisticate tecnologie spyware, e non si fa il benché minimo scrupolo di venderle a governi che intendono usarle contro difensori dei diritti umani, attivisti e dissidenti”, spiega Aoun. L’NSO, da parte sua, ha più volte dichiarato di non avere alcun controllo sull’uso che gli acquirenti fanno dei propri sistemi di sorveglianza. Secondo il quotidiano Haaretz, lo Stato ebraico avrebbe avuto un ruolo di mediatore tra NSO e Stati del Golfo. Pare che ci fossero anche alcuni funzionari israeliani agli incontri d’affari tra gli ufficiali dell’intelligence saudita e la società di sorveglianza, tenutisi a volte addirittura in territorio israeliano. La divisione aziendale per il Golfo annovera, tra i propri clienti, Arabia Saudita, Oman, Bahrain e gli emirati di Abu Dhabi e Ras el-Khaimah. Con un giro d’affari annuo di centinaia di milioni di dollari, si tratterebbe della più redditizia. Gli strumenti proposti dal NSO non vengono utilizzati solo contro i dissidenti. Secondo il New York Times, per esempio, sarebbero stati usati da Abu Dhabi per tentare di intercettare dati di membri della famiglia reale del Qatar, tra cui l’emiro Tamim bin Hamad Al Thani, o dell’ex primo ministro libanese Saad Hariri. Comunque, per quanto riguarda l’uso di Pegasus da parte dei regimi della regione, alcuni casi resteranno emblematici.
Esemplare è il caso dell’attivista degli Emirati Arabi Ahmad Mansour, rintracciato dalle autorità del suo Paese tra il 2013 e il 2014 e condannato a 10 anni di carcere per aver criticato il governo on-line; o quello del giornalista saudita Jamal Khashoggi, sorvegliato da Riyadh e ucciso all’interno del Consolato del suo Paese a Istambul nel 2018. Il giorno prima, Citizen Lab, centro multidisciplinare legato all’Università di Toronto, aveva confermato che il telefono di Omar Abdelaziz, attivista saudita titolare di asilo politico in Canada dal 2014, era stato intercettato da Pegasus attraverso un operatore legato all’Arabia Saudita.
Questi sono i legami che, finora, gli Stati del Golfo e lo Stato ebraico hanno tenuto nascosti. Presumibilmente, però, saliranno alla ribalta in seguito agli accordi di normalizzazione. “Il Golfo sta cavalcando una nuova onda di sorveglianza digitale per tracciare i cittadini, seguendo l’esempio del programma Oyoon (Occhio) di Dubai, basato su un’intelligenza artificiale e usato dalla polizia”, dice Aoun. “Il patto faciliterà e normalizzerà questo genere di relazioni commerciali, dal momento che Israele è uno dei principali esportatori di tecnologia della sorveglianza”, aggiunge. “Siamo seriamente preoccupati che la normalizzazione porti a maggiori restrizioni contro gli attivisti on-line e che tutti i cittadini dei Paesi del Golfo saranno sottoposti a sorveglianza collettiva”, aggiunge Ibrahim. Con il riaccendersi della discussione intorno all’acquisto, da parte di Abu Dhabi, degli F-35, il recente accordo di normalizzazione ha anche riaperto il dibattito sul futuro della cooperazione militare nella regione. Se è vero che l’accordo potrebbe spianare la strada ad un più ampio catalogo di armi israeliane, è però anche vero che l’armamento degli Stati arabi da parte di società israeliane non piace a tutti. In Israele, c’è chi resta sul chi vive: il timore che Tel Aviv possa spingere il riavvicinamento al punto di mettere la propria sicurezza nelle mani dei regimi autoritari arabi sta risvegliando tali perplessità. Resta da vedere quanto in là può spingersi questa cooperazione. Un domani, ci saranno forse basi israeliane al largo di Abu Dhabi?