di Marco Santopadre*
Lo shock afghano –
Pagine Esteri, 13 settembre 2021 – «Alcuni eventi catalizzano la storia, e la débâcle in Afghanistan è uno di questi» ha sottolineato Josep Borrell, l’Alto rappresentante dell’UE per la politica estera.
Il repentino ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan dopo venti anni di occupazione, grazie al quale gli “studenti coranici” hanno facilmente riconquistato l’intero paese, nel Vecchio Continente ha improvvisamente riacceso l’interesse, il dibattito e l’iniziativa sulla cosiddetta “difesa comune”. L’accelerazione è stata imposta dalla scelta di Washington di sottrarsi al pantano afghano senza coinvolgere i partner europei sulle modalità e i tempi di attuazione della scelta di ritirare le truppe, l’85% di quelle presenti.
Per i soci europei il comportamento di Joe Biden ha messo in seria difficoltà le proprie truppe e il proprio personale diplomatico, costringendo a ritirarli da Kabul in tutta fretta e abbandonando il popolo afghano al proprio destino. In realtà è difficile credere che, avendone l’opportunità, i governi della “Vecchia Europa” avrebbero scelto di mantenere le proprie truppe in un paese conteso tra una classe dirigente inetta e corrotta, cresciuta all’ombra dell’occupazione occidentale, e i movimenti fondamentalisti.
Eppure la maggior parte delle dichiarazioni degli esponenti politici e dei commentatori europei ha incentrato la propria critica alla precipitosa fuga di Washington sul fatto che questa avrebbe indebolito la tenuta dei valori e degli interessi occidentali in Afghanistan e in Asia, favorendo i propri competitori e nemici – in primis Pechino – e lasciando campo libero al terrorismo islamista e alla sistematica violazione dei diritti umani da parte dei redivivi talebani. «Eravamo andati per sconfiggere il terrorismo e costruire uno Stato democratico, gli ultimi venti giorni hanno dimostrato che non siamo riusciti in nessuna delle due» ha scritto ad esempio il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel. «Biden è il terzo presidente ad avvertirci che gli Stati Uniti si stanno disinteressando dei conflitti globali (…). Gli europei devono svegliarsi e assumersi le loro responsabilità», ha affermato invece Josep Borrell, al termine della riunione dei ministri della Difesa tenutasi a Brdo, in Slovenia.
L’Europa potenza
In realtà il rinnovato interesse per una forza militare europea – di cui si cominciò a parlare già in concomitanza con la nascita della Comunità Europea per il Carbone e l’Acciaio – ha sì a che fare con quanto avvenuto in Afghanistan, ma per ragioni diverse.
L’obiettivo dei fautori della “difesa comune” è approfittare dell’ennesimo scacco militare e geopolitico collezionato dagli Stati Uniti per rilanciare uno strumento di proiezione internazionale degli interessi economici e geopolitici dell’Unione Europea, contribuendo allo stesso tempo a rafforzare una sua “autonomia strategica” finora assai limitata proprio dalla dipendenza militare del Vecchio Continente da Washington, ereditata dal secondo conflitto mondiale. Dopo la Brexit, che ha visto l’uscita dalla confederazione del più forte alleato di Washington all’interno dell’UE, da sempre contrario ad un esercito europeo, la figuraccia afghana di Biden potrebbe creare migliori condizioni per un progetto finora fortemente ostacolato e rallentato.
Non a caso per il ministro della Difesa italiano, Lorenzo Guerini, «la lezione afghana (…) rappresenta per l’UE un nuovo monito a compiere l’auspicato salto di qualità nella sua dimensione difesa e nella gestione delle crisi». «Ora anche l’America sembra intenzionata a ridimensionare il ruolo attivo e per questo serve un maggior coinvolgimento dell’Europa. C’è un vuoto: se non lo riempiamo noi, lo faranno altri» chiarisce il generale Claudio Graziano, presidente del Comitato Militare dell’UE, che pure dice di non voler mettere in discussione la Nato.
In un’intervista al quotidiano “Il Sole 24 Ore” il commissario europeo per il mercato interno, il francese Thierry Breton, è ancora più esplicito quando afferma che una forza militare continentale «non può più aspettare. (…) Il soft power non basta più». E poi elenca le decisioni da adottare quanto prima: la definizione di una dottrina europea per la sicurezza e la difesa; la creazione di una «forza militare di protezione, operativa, flessibile e attivabile rapidamente»; «un quadro istituzionale e politico europeo nuovo» che permetta di prendere le decisioni comuni necessarie, attraverso ad esempio un Consiglio Europeo di Sicurezza che supporti il Consiglio dei Ministri della Difesa dell’UE. «Un’Europa geopolitica, un’Europa potenza deve dotarsi di mezzi propri e di certe caratteristiche dell’hard power».
Diritti umani e democrazia non sembrano essere in cima alla lista delle preoccupazioni di coloro che premono per un’accelerazione in tema di difesa.
L’autonomia strategica
Già nel 2018 il presidente Emmanuel Macron – Parigi è da tempo il più convinto fautore della creazione dell’esercito europeo – affermò: «Dobbiamo costruire un’Europa che si possa difendere da sola, con i suoi mezzi e senza dipendere unicamente dagli Stati Uniti». Donald Trump non prese bene la dichiarazione, e non a caso la Casa Bianca ha imposto ai partner della Nato l’aumento delle spese militari e in particolare del budget destinato da ogni paese europeo a finanziare le attività del Patto Atlantico, finora sostenute soprattutto da Washington. Un passo che però ha suscitato scontento negli ambienti europei, aumentando ulteriormente l’ostilità nei confronti della supremazia militare USA in Europa.
Anche il nascente complesso militare-industriale europeo, ovviamente, lavora e preme per un rafforzamento dell’autonomia strategica dell’UE. Ed ora, dopo la débâcle statunitense in Afghanistan, scalpita. Come spiega Francesca De Benedetti sul Domani, i finanziamenti pubblici erogati negli ultimi anni per la realizzazione di una difesa comune europea sono finiti in larga parte a colossi industriali come Thales e Leonardo – rispettivamente francese e italiano – incaricati di rafforzare l’autonomia continentale in tema di armamenti e tecnologie di sicurezza. Un’altra preoccupazione per l’industria militare statunitense e la Casa Bianca, che continuano a vendere armi e sistemi di difesa a numerosi paesi europei, ma che in prospettiva potrebbero perdere consistenti fette di mercato nel continente e affrontare la concorrenza globale di un polo militare-industriale europeo. I delegati delle diverse imprese presenti nella European Defense Agency e i lobbisti che frequentano i palazzi delle istituzioni europee premono per un aumento dei finanziamenti al settore, potendo contare sul protagonismo del commissario – ed ex manager – Breton.
Negli ultimi anni si sono moltiplicate le collaborazioni tra le imprese del settore di vari paesi europei.
Recentemente, ad esempio, le ministre della Difesa di Francia e Germania, Florence Parly e Annegret Kramp-Karrenbauer, hanno firmato insieme alla sottosegretaria alla Difesa spagnola, Esperanza Casteleiro Llamazares, il terzo accordo per l’attuazione del programma “Next Generation Weapon System within a Future Combat Air System” per la realizzazione di un aereo da combattimento tutto europeo.
A disposizione ci sono vari finanziamenti pubblici, il più consistente dei quali è messo a disposizione dal Fondo Europeo per la Difesa (Edf) istituito dal Parlamento Europeo e che può contare su uno stanziamento di 8 miliardi per il bilancio 2021-2027. I livelli raggiunti dal bilancio della Difesa statunitense sono lontani, ma si evidenzia una forte progressione, se si pensa che i due fondi europei istituiti dal 2017 offrivano, complessivamente, solo 590 milioni.
Nel febbraio scorso, inoltre, l’UE ha adottato il “Piano d’azione sulle sinergie tra l’industria civile, della difesa e dello spazio”, iniziativa che intende promuovere la collaborazione, nella ricerca e nello sviluppo, tra il civile e il militare. Già nel 2017, poi, l’UE ha lanciato il cosiddetto patto militare “Pesco” (Permanent Structured Cooperation), destinato a integrare le forze armate di 25 dei 27 paesi della confederazione.
Ora tutti gli occhi sono puntati sul cosiddetto Eu Strategic Compass, cioè la “Bussola Strategica”, un documento di indirizzo che dovrebbe essere formalizzato e adottato entro la fine della primavera del 2022. Borrell propone l’istituzione di una initial entry force, un corpo militare integrato formato da 5 mila militari provenienti da diversi paesi, in grado di essere mobilitato in tempi molto brevi. A trainare l’approvazione di un testo forte, in grado di imprimere una svolta alle politiche europee di difesa comune, dovrebbe pensarci il semestre di presidenza francese, che seguirà quello attuale a guida slovena. Qualche mese fa Macron ha già messo le carte in tavola notando – o decretando? – quella che ha definito la “morte cerebrale” della Nato.
Il nodo della Nato
Il rapporto tra la nuova entità militare europea e l’Alleanza Atlantica – e quindi con Washington – è uno dei nodi che finora ha ritardato l’approvazione di una road map più spedita e determinata. Se Parigi e ambienti trasversali nel continente premono per un esercito comune europeo completamente autonomo, paesi come Italia e Germania sono ancora attestati sullo sviluppo di un secondo corno, europeo, all’interno dell’alleanza militare finora guidata in solitaria dagli States.
Anche lo strapotere dell’Armée française rispetto agli altri 26 membri dell’UE – la Francia è l’unico paese dotato di armamenti nucleari, di un esercito possente da sempre proiettato all’estero e sostenuto da un complesso militare-industriale consistente – rischia di continuare a rappresentare un ostacolo. Nella visione francese, infatti, la Germania dovrebbe continuare a giocare il ruolo di locomotiva economica lasciando a Parigi la gestione del fronte militare; ma Berlino, fortemente limitata sul piano militare dalla Costituzione imposta dai vincitori della Seconda Guerra Mondiale, ha aspirazioni assai più consistenti. Anche la forte rivalità tra Francia e Italia, manifestatasi sulla gestione del dossier libico, ha fortemente rallentato la progressione dell’integrazione militare europea, anche se i due paesi sembrano recentemente aver trovato una soluzione di compromesso.
Ovviamente, un ulteriore ostacolo è rappresentato dalla forza degli interessi filo statunitensi all’interno dei governi e degli ambienti economici e militari europei, in particolare nell’Europa Orientale, nelle Repubbliche Baltiche e nei Balcani.
Il limite dell’unanimità
Molti analisti, sulla stampa internazionale, hanno affermato che, al di là delle buone intenzioni e delle dichiarazioni di alcuni leader politici e di alcuni governi, la costituzione di una forza militare europea è in realtà una “mission impossible”.
L’UE, si ricorda, ha già a disposizione un “battlegroup” di 1500 uomini, istituito negli scorsi anni, ma finora non lo ha mai utilizzato. E la proposta scaturita negli anni ’90 di istituirne uno di addirittura 50 mila unità è rimasta lettera morta.
Soprattutto, si ricorda l’insormontabile scoglio rappresentato dal principio di unanimità nell’approvazione delle decisioni da parte degli organismi continentali.
Un principio che, secondo i fan dell’esercito europeo, andrebbe superato a favore del principio di maggioranza, come ha fatto notare l’ex ministro degli Interni Marco Minniti, attualmente presidente della fondazione Med-or legata a Leonardo.
È difficile pensare che tutti e 27 i governi dell’Unione Europea saranno mai unanimi su una questione spinosa come la politica militare europea, o sull’invio di una missione militare in un teatro di crisi.
Le cooperazioni rafforzate
E così da più parti si vorrebbe rispolverare il principio delle cosiddette “cooperazioni rafforzate” che hanno permesso negli scorsi anni ad alcune potenze continentali di imporre livelli di integrazione più avanzati rispetto a quelli esistenti in vari settori, tramite un accordo multilaterale che aggirasse l’unanimità necessaria per l’adozione di decisioni comuni a tutti i membri. Davanti al fatto compiuto, in genere, i paesi inizialmente esclusi o titubanti si sono accodati.
E ora la ministra della Difesa tedesca, Annegret Kramp-Karrenbauer, ha proposto il ricorso all’articolo 44 del Trattato dell’Unione che permetterebbe la partecipazione volontaria dei singoli stati alle operazioni militari: «Finora non è mai stato utilizzato e io sono pienamento d’accordo sul ricorso a questa possibilità» le ha fatto sponda Borrell, contando sul sostegno dell’Italia, della Francia, dell’Olanda, del Belgio e del Lussemburgo.
Il problema, non da poco, è che l’adozione dell’articolo 44 per affidare ad un gruppo di “paesi volenterosi” la gestione di missioni di politica di difesa e di sicurezza comuni richiede comunque una decisione unanime del Consiglio Europeo e tempi non proprio brevissimi.
Fatto sta che in un’epoca di “multipolarismo” e di competizione globale tra un numero sempre maggiore di agguerrite potenze vecchie e nuove, se l’Unione Europea non riuscirà a dotarsi di uno strumento militare efficiente difficilmente potrà far valere le sue ragioni e i suoi interessi sullo scenario internazionale.
Ma, d’altra parte, difficilmente un esercito europeo potrà nascere senza la creazione di un’entità politica unitaria. Per ora l’Unione sembra ancora parecchio lontana da questo traguardo.
https://www.nytimes.com/2021/09/01/opinion/afghanistan-europe-nato.html
https://www.politico.eu/article/afghanistan-revamps-debate-on-eu-army-nato-defense/
* Marco Santopadre, giornalista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e del Nordafrica. Scrive tra le altre cose di Spagna e Catalogna.