di Caterina Maggi

Pagine Esteri, 14 ottobre 2021 – Sulla gestione atroce della pandemia da parte del governo dell’ex militare si potrebbero scrivere dei trattati. Di questo si è parlato anche nelle audizioni alla Camera per verificare la possibilità di avviare la procedura di impeachment. È abbastanza improbabile che, con fedelissimi di Jair Bolsonaro nei ruoli chiave dell’istituzione come il presidente Arthur Lira (fu eletto proprio grazie all’appoggio del presidente), il processo di messa in accusa possa aver luogo. E non converrebbe nemmeno agli avversari di Bolsonaro, i lulisti e i fascisti xenofobi di Ação Integralista Brasileira, cui gaffe dopo gaffe il leader dell’Apb sta regalando punti in più nei sondaggi. Il vero nemico di Jair Bolsonaro è lo stesso Jair Bolsonaro. Persino nel suo partito (creato nel 2019 dopo l’addio ai social liberali) si respira aria di fronda. Le rivelazioni sulla gestione, ad esempio, della campagna vaccinale sono spaventose e proiettano ombre lunghe da cui i più moderati (e scaltri) dei suoi colleghi vogliono scampare per non bruciarsi il proprio futuro politico.

Il problema è, che queste cose le vede chi legge i giornali, chi fa parte del mondo accademico brasiliano, o di una minoranza bistrattata, o chi da fuori sa setacciare le fonti e produrre analisi geopolitiche realistiche. Ma un brasiliano medio, diciamo un autotrasportatore, o un provinciale delle zone rurali, che cosa vede di tutto questo? Qui si gioca la vera battaglia per scalzare Bolsonaro: tra il suo elettorato più chiassoso, che organizza manifestazioni in piazza rigorosamente senza mascherina, che ai comizi fa barbecue per la strada e ha un bisogno fisiologico di attribuire la colpa della propria miseria a qualcun altro (immigrati, afrodiscendenti, donne, omosessuali etc.). Perché è su queste piccole infime cose che Bolsonaro aveva giocato la sua campagna elettorale, ed è in queste frange che nonostante gli entusiasmi degli organizzatori sta perdendo consensi. Chi resta urla più forte, ma perché dove una volta erano in tre a intonare un coro razzista e goliardico ora ne è rimasto uno.

E quelli che se ne sono andati, bisognerebbe chiedersi: perché se ne sono andati? E dove vanno? Alla prima domanda si può rispondere in modo piuttosto semplice: perché avevano ricevuto promesse, ma ora chiedono fatti. Tre i punti della campagna elettorale del 2019 di Bolsonaro: lotta alla corruzione, ripresa economica e benessere, sicurezza. Quando poi uno fa due conti, però, questi non tornano. Stendiamo un pietoso velo su antitrust e lotta alla corruzione; basterebbe dire che mentre ai brasiliani veniva detto che non si potevano comprare altri vaccini “perché non ci sono soldi in cassa” (citazione del Presidente), il governo Bolsonaro miracolosamente li trovava per salvare il colosso petrolifero Petrobas, il cui presidente nonché autore del crack era un ex militare senza esperienza ma molto amico di Jair. Mettiamoci poi pure la pandemia, ma l’economia brasiliana è tutt’altro che decollata. I dati della disoccupazione sono in miglioramento, ma debole: 13,8 contro il 14,5 (cioè 14,8 milioni di persone) delle prime proiezioni. Il Fondo Monetario Internazionale ha stimato un aumento dell’inflazione in Brasile del 7,9%, contro il 4,5% di una prima proiezione.

La Banca centrale brasiliana ha tentato di spegnere l’incendio alzando i tassi di interesse di un punto percentuale, cioè portandoli al 6,25%. Problema: sul breve periodo è una ventata di ossigeno, ma sul lungo rischia di far salire il tasso di interesse reale, rendendo più difficile la vita alle imprese brasiliane e a quelle straniere che vogliono portare capitali nel paese. Inoltre, se ora la politica fiscale sarà espansiva (si presuppone una crescita del Pil del 1,5 %) giocoforza in seguito dovrà contrarsi. E se l’inflazione tornerà a crescere, lo farà anche la sperequazione sociale che sta letteralmente dilaniando la società brasiliana. Come se ne accorge la “casalinga di Fortaleza”? Quando va al supermercato e i beni sugli scaffali non le consentono di riempire la dispensa, perché sono troppo cari. E così a Belem sugli scaffali compaiono gli avanzi di pesce a 3,90 Real, mentre a Rio si cerca cibo tra gli avanzi e le carcasse di vacche in un camion. Scrive in una nota il ministero di Sanità brasiliano «Non c’è legge che vieti la vendita dei resti di pesce», aggiunge il supermercato «Sono venduti per chi vuol cucinare zuppe o guazzetti»; ma intanto sui social si fa notare che prima questo “prodotto innovativo per minestre senza pretese” non c’era, sugli scaffali, e monta la rabbia. Sulle scene pietose di chi cerca di disossare una carcassa per avere un po’ di carne, non una parola dal governo. Bolsonaro si difende, asserendo che la fame e la crisi economica «Sono colpa di misure drastiche e stupide come i lockdown». Abbuoniamogli pure il fatto che derivano, invece, dall’aumento dei prezzi seguito alla crisi energetica che il suo governo non è in grado di fronteggiare, alle proteste degli autotrasportatori sul caro benzina, a una gestione di problemi di politica internazionale che tagliano le gambe a settori chiave dell’economia brasiliana (come allevamento e industria) e di cui il governo Bolzonaro ha un polso debole ai limiti dell’imbarazzo (come il blocco di carne bovina della Cina). I lockdown sono stati necessari per via dei dati del contagio; dati del contagio da suicidio di massa, perché il governo ha negato l’esistenza del Covid e ha lasciato senza mezzi di prevenzione cittadini e ospedali; e chi ha voluto tutto ciò? Così la palla torna a Jair Bolsonaro. Che invece di attuare riforme serie per attenuare il divario sociale, mette il veto sulla distribuzione gratuita di un bene di prima necessità come l’assorbente per le donne meno abbienti; una rifora che avrebbe aiutato 5,6 milioni di donne indigenti. Gli risparmiamo considerazioni sulla sicurezza. Non lo faranno i brasiliani, che all’83% hanno paura di morire di crimini violenti. Un dato in crescita, dopo quasi tre anni di governo.

Il vero antagonista di Jair Bolsonaro, attuale presidente del Brasile, non è la sinistra di Lula, una controparte scampata parzialmente (e non senza sforzo) alle accuse di frode, riciclaggio e corruzione e che dovrà giocoforza allenare una “gioventù politica” in grado di succedere ai membri più anziani del partito, Ignacio da Lula in primis. Il vero nemico Bolsonaro lo trova guardando allo specchio. E qui però si arriva al secondo quesito: i bolsonaristi, dove andranno? Difficile credere in un boom di redenzioni che riporti sulla via del buon senso migliaia di militanti, di cui buona parte probabilmente affluirà in partiti di estrema destra come la già citata Açao di Plinio Salgado; alla meno peggio, ingrosserà le file del partito degli astensionisti. Ma se Lula vuole salvare la situazione, deve fare un mea culpa: chi ha votato Bolsonaro, lo ha fatto anche per frustrazione ed esasperazione nei confronti di un sistema politico corrotto. E la corruzione non l’ha inventata Bolsonaro. La sfida della sinistra ora sarà dimostrare di aver imparato dai propri errori, presentare un programma trasparente e coraggioso ma con i piedi per terra, e disinnescare la tagliola fiscale che Bolsonaro sta lasciando dietro di sé, sperando che l’avversario che gli succederà ci inciampi dentro.