di Michele Giorgio –

Pagine Esteri, 14 aprile – Nel film Let It Be Morning persino le colombe, quando le gabbie vengono aperte, appaiono riluttanti a spiccare il volo finalmente libere in un territorio che invece libero non è. È come se percepissero una libertà solo apparente, falsa, come quella in cui ha vissuto sino a quel momento Sami, il personaggio protagonista del film diretto dal regista israeliano Eran Kolirin, tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore palestinese Sayed Kashua. Presentato a Cannes, Let It Be Morning rappresenterà Israele agli Oscar, nella categoria del miglior film straniero, essendo stato scelto qualche giorno fa alla serata dei Premi Ophir come miglior film di quest’anno. Centrato sull’occupazione militare israeliana e la condizione dei palestinesi, la scelta del film per il premio cinematografico più importante al mondo è stata accompagnata da forti polemiche in Israele e prese di posizione dei palestinesi.

Eran Kolirin

Proprio tre attori palestinesi di Let It Be Morning Alex Bakri, Juna Suleiman ed Ehab Salami – che già si erano rifiutati di andare a Cannes, in protesta perché la pellicola non era stata presentata come palestinese (ma varie istituzioni israeliane hanno finanziato il film assieme a produttori francesi) – hanno accompagnato la cerimonia dei Premi Ophir con messaggi di condanna dell’occupazione. «In una situazione normale proverei felicità e orgoglio per il premio – ha sottolineato Suleiman, l’attrice protagonista – ma con mio sgomento ciò non è possibile quando si stanno facendo sforzi per cancellare l’identità palestinese e quando porto un dolore collettivo nel ruolo che ricopro». Da parte sua Bakri ha scritto «So che c’è chi si arrabbierà perché ho tirato fuori la questione politica in una serata che celebra l’arte ma per me l’arte è politica e dietro c’è la responsabilità dell’artista di sfruttare ogni fase possibile per parlare di una mancanza di giustizia».

Ehab Salami, vincitore del premio come miglior attore non protagonista, invece era presente alla cerimonia e ha rivolto al pubblico parole più moderate. «Ho un sogno – ha detto – e quel sogno non danneggia l’umanità e non danneggia la salute. È in due atti: il primo, una pace giusta per il popolo palestinese; il secondo è una vita calma, una vita pacifica, una vita creativa per i cittadini dello Stato (israeliano)». Messaggi che, spiega qualcuno, sono frutto anche dell’onda che attraversa la società palestinese, inclusa quella con cittadinanza israeliana, contraria alla «normalizzazione» culturale ed artistica che mette in buona luce Israele presso l’opinione pubblica internazionale favorendo l’occultamento dell’occupazione e delle discriminazioni. Ma proteste sonore per la scelta di Let it Be Morning arrivano anche da nazionalisti israeliani che considerano l’opera di Kolirin «pura propaganda dell’Olp» e rimpiangono l’ex ministra della cultura Miri Regev, contraria ad investire fondi pubblici in film e opere artistiche che danno all’estero una immagine negativa di Israele.

Il film narra della visita di un palestinese di Gerusalemme est, Sami, al villaggio di origine in Cisgiordania per il matrimonio del fratello e delle conseguenze per tutti coloro che si trovano nella zona della chiusura improvvisa imposta dall’esercito israeliano. Ne risulta una commedia beffarda e amara, piuttosto fedele allo spirito dei romanzi di Kashua, abile nel narrare con sottile ironia dei contrasti interiori che agitano i palestinesi di Israele appartenenti alla classe media e spesso integrati, quando è imposto loro di rispolverare la loro identità nazionale rimasta spesso sepolta sotto le comodità di una vita agiata e il desiderio di tenersi a distanza dalla politica. Ma in questa terra non si smette mai di essere palestinesi. Non si può. Perché la realtà dell’occupazione dei Territori e di uno Stato che, ora anche nero su bianco dopo l’approvazione di una legge fondamentale, appartiene agli ebrei e non a tutti i suoi cittadini, presto o tardi azzera tutto. E un palestinese resta sempre un palestinese, un pericolo, di fronte alle autorità. E poco importa che sia in possesso di un passaporto israeliano.

 

 

 

 

Sami, uomo d’affari benestante, è accompagnato dalla sua affascinante ma frustrata moglie Mina (Juna Suleiman) e il figlio nel viaggio di ritorno al villaggio polveroso della sua giovinezza di cui non ha nostalgia. Per questo desidera ripartire il prima possibile: a casa lo attendono gli affari e un’amante israeliana. L’esercito, invece, ha altre idee e senza preavviso il villaggio viene messo sotto il lockdown militare: nessuno può uscire, nemmeno Sami. L’assedio regge poiché gli abitanti del villaggio, simboleggiando ben note spaccature politiche tra i palestinesi, sono divisi su cosa fare. «In questo villaggio non mettiamo insieme due persone per il backgammon», osserva qualcuno. Il goffo Abed (Ehab Salami), un tassista depresso e senza quattrini, intanto sottolinea a modo suo i privilegi, ora solo sulla carta, dell’amico di gioventù Sami.

Let It Be Morning, grazie al testo di Sayed Kashua e alla regia di Kolirin, non è solo un’altra rappresentazione della brutalità di vivere sotto occupazione per milioni di persone, aspetto del film che fa incavolare gli israeliani desiderosi di offrire all’estero una immagine sempre splendente e positiva del loro paese. Il film evidenzia anche il conformismo sempre più diffuso nella classe media palestinese. Sami però prova sensi di colpa paragonando la sua vita a quella degli amici di gioventù in Cisgiordania e si convince che la ribellione allo status quo è l’unica via percorribile per i palestinesi, ovunque essi siano. Pagine Esteri

 

Questo articolo è stato pubblicato domenica 10 ottobre dal quotidiano Il Manifesto