di Antonio Perillo –
Pagine Esteri, 8 novembre 2021 – Centinaia di persone, a Dallas, riunite in Dealey Plaza, proprio la piazza dove nel 1963 fu ucciso John Fitzgerald Kennedy. Non si tratta di un memorial in suo onore, però, ma di un raduno di true believers di QAnon, che aspettano l’apparizione di JFK Jr, figlio dell’ex presidente morto in un incidente aereo nel 1999, ed il suo intervento per reinsediare Trump come presidente. Per quanto pazzesco possa sembrare anche per gli standard nostrani, è quanto realmente accaduto martedì 2 novembre 2021, quando la folla aspettava per le 12:30 una parata con a capo il figlio di JFK, pronto anche ad assumere la carica di vice-presidente. Non essendo però comparso, molti dei partecipanti si sono quindi diretti allo stadio Cotton Bowl, dove quella sera si è tenuto un concerto del nuovo tour dei Rolling Stones, confidando che l’epifania sarebbe avvenuta lì in maniera ancora più spettacolare. Nulla di tutto ciò è ovviamente accaduto, ma la rete di gruppi Telegram e dei siti eredi dei forum 4chan e 8chan che pubblicavano i messaggi rivelatori di Q, fantomatico ex membro dei servizi segreti iniziatore della leggenda, hanno spiegato ai credenti che l’evento è soltanto rinviato ad un momento migliore.
Tutti i principali media americani hanno parlato di questa manifestazione, chiarendo come gli organizzatori di questo raduno in realtà costituiscano soltanto una componente fringe, estrema, di Qanon. Il gruppo ultra-cospirazionista di estrema destra conta complessivamente centinaia di migliaia di sostenitori e ritiene che Donald Trump sia in una lotta segreta contro una cabala di satanisti-pedofili dell’elite politica e finanziaria globale, che comprende il Deep State Usa e gli avversari Democratici. Membri del movimento, come è noto, parteciparono lo scorso 6 gennaio all’assalto al Capitol Hill, a Washington, per protestare contro le presunte frodi che avrebbero rubato al tycoon le elezioni presidenziali del 2020.
Insomma, nella settimana in cui in tutto il mondo si è parlato di Biden al G20 e alla Cop26 di Glasgow e delle elezioni in due importanti stati come Virginia e New Jersey (nonché in diverse importanti città), bisogna tener presente che la società e la politica del Paese più potente del pianeta sono anche questo.
Da un punto di vista strettamente politico, è uno dei sintomi che indicano che, nonostante l’ostracismo subito dai social e l’ostilità dei grandi media, la presa dell’ex presidente Trump sul partito repubblicano e soprattutto sui suoi elettori è ancora molto forte. Si tratta di un dato da cui non si può prescindere per analizzare quanto sta accadendo e quanto potrà succedere nei prossimi mesi, quando sono previste le elezioni di medio termine del 2022, ed in vista delle elezioni presidenziali del 2024.
La citata tornata elettorale del 2 novembre ha costituito un vero terremoto politico ed una durissima sconfitta per il presidente Biden e per i Democrats. La Virginia è passata in mani repubblicane con la vittoria del nuovo governatore Glenn Youngkin, in uno stato in cui Biden, appena un anno fa, aveva battuto Trump di 10 punti. E in New Jersey, altro stato della costa est, considerato ormai un blue state, cioè stabilmente democratico, il governatore uscente Murphy ha spuntato la rielezione per il rotto della cuffia, dopo una notte in cui il suo competitor repubblicano Ciatterelli era apparso in testa. Nel 2020 in New Jersey Biden aveva vinto di ben 17 punti. Complici il disastroso ritiro dall’Afghanistan dello scorso agosto e le estenuanti trattative sui provvedimenti della sua agenda, di cui dirò meglio in seguito, Biden è passato dall’essere uno dei presidenti col più alto indice di popolarità all’inizio del suo mandato ad ottenere uno degli indici più bassi nella storia dopo un anno di governo.
Quello che ha reso pesante politicamente il risultato in Virginia è che sia il Presidente sia Barack Obama avevano tenuto comizi a sostegno del candidato democratico, il già governatore McAuliffe, caricando il voto di significato nazionale e chiedendo esplicitamente un voto contro il trumpismo.
Dal canto suo però, Youngkin, dirigente della multinazionale finanziaria Carlyle alla sua prima candidatura in politica, ha tenuto un profilo volutamente distante da quello di Trump, presentandosi significativamente sul suo sito come “un nuovo tipo di leader”. La campagna contro di lui ha probabilmente avuto un effetto controproducente. Il nuovo governatore è marcatamente conservatore, attento all’elettorato religioso, ma è molto lontano dai contenuti e soprattutto dai toni estremi di Trump. Non ne ha rifiutato l’endorsement, altro segno della forza che Trump mantiene, ma non ha svolto iniziative con lui.
All’indomani della significativa vittoria di Youngkin, diversi giornalisti e commentatori hanno ventilato se non addirittura caldeggiato l’idea che il neo governatore possa candidarsi alla presidenza per i Repubblicani nel 2024. La storia della destra americana dell’ultimo anno può quasi riassumersi interamente attorno a questo scontro: da un lato Trump con la sua potenza elettorale ed il tentativo di riorganizzarsi dopo la sconfitta elettorale e l’assalto Capitol Hill, dall’altro l’establishment repubblicano più moderato, che ritiene il suo estremismo e avventurismo responsabili non soltanto della perdita della presidenza, ma anche della maggioranza al Senato, compiuta nei ballottaggi in Georgia di gennaio 2021. L’insistenza e quasi l’ossessione di Trump per i mai provati brogli delle elezioni presidenziali, secondo molti dirigenti del Gop, avrebbero ingigantito la sfiducia di una parte dell’elettorato repubblicano nel processo elettorale, consentendo la vittoria dei Dem. La sconfitta nei ballottaggi provocò il passaggio, per un solo seggio, della maggioranza al Senato in mano Democrat, elemento decisivo per il complesso processo legislativo del parlamento USA.
In questo senso il profilo corporate e moderato di Youngkin appare perfetto per quanti cercano un’alternativa a Trump che sia abbastanza popolare da contendergli la nomination repubblicana per il 2024. L’attenzione per un volto così nuovo potrebbe tuttavia essere anche interpretata come un segno di affanno per l’establishment repubblicano rispetto al controllo che Trump conserva sul Gop.
Simbolo per tutti dello scontro fra Trump e quelli che lui chiama RINO (Republicans In Name Only, repubblicani solo di nome), coloro che non si sono opposti alla ratifica delle elezioni del 2020, è la querelle fra l’ex presidente ed il capo della minoranza repubblicana in senato Mitch McConnell. I toni fra i due sono diventati durissimi, ma McConnell, dopo iniziali forti perplessità, ha per esempio dovuto dare il suo sostegno alla candidatura al Congresso proprio per la Georgia del candidato trumpiano Hershel Walker, ex sportivo di grande notorietà. McConnell, politico di lunghissimo corso conosciuto per il suo grande pragmatismo (e sostenitore di Trump quando vinceva), sa che non si può rinunciare ad i voti dei trumpiani per riconquistare la maggioranza al Senato nel ‘22 e vincere la presidenza nel ‘24.
Allo stesso tempo però, McConnell e la leadership repubblicana al Senato e al Congresso conducono quotidiane e lunghissime trattative col presidente Biden e coi Democrats sui provvedimenti dell’agenda Biden che prevedono ingenti investimenti pubblici. Il solo fatto di trattare con Biden provoca naturalmente le ire di Trump.
Mentre scrivo, arriva la notizia dell’approvazione definitiva al Congresso del pacchetto di investimenti per l’ammodernamento delle infrastrutture, in discussione da mesi, con un voto parzialmente bipartisan. E’ un avvenimento molto rilevante, che ridà a Biden un po’ di respiro e segnala anche una possibile saldatura fra le aree più moderate dei due partiti, l’una contro Trump, l’altra contro i più progressisti e socialisti. Hanno infatti votato a favore del pacchetto di Biden 13 repubblicani moderati, mentre 6 deputati dell’ala Dem più progressista, fra cui Alexandra Ocasio-Cortez, hanno espresso voto contrario. Il provvedimento, infatti, doveva essere approvato, questi erano i patti garantiti dalla speaker Pelosi, insieme al Build Back Better Act, l’altro piano, molto caro ai progressisti, di investimenti in “infrastrutture umane”, cioè in spesa sociale e per allargare la copertura di Medicare, l’assicurazione sanitaria statale. Ma l’ala più centrista di entrambi i partiti ha prevalso, causando un ulteriore posticipo del voto sul secondo provvedimento. C’è da dire che il piano, inizialmente paragonato a nulla di meno che al New Deal di Roosevelt, era già stato ridimensionato dagli iniziali 6mila miliardi di dollari agli attuali possibili 1,7mila, sfrondando anche le norme più avanzate contro il climate change, sgradite ai repubblicani. Il ruolo ostruzionista di due senatori democratici moderati, Manchin e Sinema, insieme ai repubblicani da sempre contrari a grandi spese statali in deficit, il tutto unito alla risicatissima maggioranza in Senato dei Dem, ha reso ben visibile questa concordanza di interessi.
Il partito repubblicano esce molto rafforzato dal risultato delle elezioni in Virginia e New Jersey e molti analisti pronosticano la riconquista della maggioranza in Senato alle elezioni di midterm. Più complicato è dire chi sia il reale vincitore politico all’interno dello stesso Gop. Youngkin rappresenta l’ala moderata, ma l’insoddisfazione per Biden e per i politici di Washington impegnati a trattare durante una crisi ancora molto forte causata dalla pandemia, potrebbe premiare ancora una volta il populismo di destra à la Trump, di lui in persona o di una nuova figura che ne segua le orme.