di Valeria Cagnazzo
Pagine Esteri, 15 dicembre 2021 – È stato nominato il 10 dicembre scorso il nuovo Primo Ministro del Burkina Faso, dopo le dimissioni di Christophe Dabiré in un Paese in rivolta: si tratta di Lassina Zarbo, 58 anni, laureato in geofisica a Parigi e segretario della Commissione per la messa al bando dei test nucleari. Nome poco conosciuto al grande pubblico, con una formazione scientifica alle spalle e senza una preparazione in materia economica e militare, due campi in piena crisi in Burkina Faso, il nuovo capo del governo è stato probabilmente scelto per la sua personalità e per il peso politico dei suoi sostenitori: primo tra tutti Djibrill Bassolé, ministro degli Esteri ai tempi del Presidente Blaise Compaoré (rimasto al potere dal 1987 al 2014). Il nuovo incarico fa parte del rimpasto di governo promesso il 27 novembre scorso dal Presidente della Repubblica Roch Marc Christian Kaboré per rispondere alle manifestazioni di massa che stanno travolgendo il Paese.
Una sfida non semplice per il nuovo incaricato, che si ritroverà a governare un Paese in preda al caos delle rivolte popolari, delle loro repressioni sanguinose e della violenza di stampo terroristico. La situazione del Burkina Faso, già instabile a causa dei ripetuti attacchi jihadisti da cinque anni, è precipitata dopo che il 14 novembre scorso un attentato terroristico a Inata, nella provincia di Soum nel Sahel, è costato la vita ad almeno 49 militari e a quattro civili. Si tratta dell’attentato jihadista più sanguinoso nei confronti dell’esercito dal 2015 ad oggi. All’alba, circa 300 uomini di un gruppo armato affiliato ad Al Qaeda, il “Gruppo per il sostegno dell’Islam e dei musulmani”, avrebbero assaltato il campo militare di Inata e aperto il fuoco sui soldati. Una carneficina che si inserisce in un clima di recrudescenza delle violenze dei gruppi jihadisti, intenzionati a eliminare del tutto la già debole presenza delle forze statali nel Sahel. Nel mese di novembre, secondo l’International Crisis Group, almeno tredici civili sarebbero stati uccisi in un attentato di un gruppo affiliato allo Stato Islamico del Grande Sahara nella provincia di Oudalan, due civili a Seytenga, sette poliziotti nel dipartimento di Falagountou. Il “Gruppo per il sostegno dell’Islam e dei musulmani”, dall’altro lato, aveva già preso di mira le forze dell’esercito uccidendo nove militari e dieci civili nella regione di Sanmatenga e vandalizzato il dipartimento militare di Mangodara.
L’attentato di Inata, tuttavia, è stato la miccia che ha infiammato le proteste nel Paese, in cui già era forte il malcontento della popolazione burkinabé, vittima della costante minaccia jihadista e di una protratta instabilità economica e politica. A colpire l’opinione pubblica in modo irreparabile non è stato solo l’alto numero di soldati trucidati dai terroristi, ma anche un documento emerso nella stessa giornata della strage, che documentava le terribili condizioni di vita dei militari nella base di Inata, costretti a ritmi di lavoro pesantissimi con scorte di cibo insufficienti. La percezione che neanche all’esercito siano garantite sicurezza e condizioni di vita umane ha spinto la popolazione nelle piazze con una rabbia senza precedenti. Dal 16 novembre i burkinabé si sono così riversati nelle strade, la loro prima richiesta le dimissioni del Capo di Stato Kaboré.
Era il 15 gennaio del 2016 quando due autobombe esplosero intorno all’Hotel Splendid e al Caffè-Ristorante Cappuccino, luoghi di ritrovo soprattutto per il personale occidentale delle agenzie internazionali nel cuore di Ouagadougou, capitale del Burkina Faso. I terroristi, che poi furono descritti a più riprese sui giornali di tutto il mondo come giovani arabi, tuareg o neri accompagnati da una donna con un’acconciatura di dreadlocks, si introdussero nell’hotel e nel caffè e ne fecero ostaggi gli ospiti. Le porte delle stanze dell’albergo furono crivellate da colpi d’arma da fuoco, e dopo molte ore, alla fine del blitz dell’esercito burkinabé che avrebbe liberato circa 150 ostaggi, il bilancio della giornata sarebbe stato di 27 morti e 33 feriti. Da allora, gli attentati terroristici nel Paese, rivendicati da affiliati allo Stato Islamico del Grande Sahara o ad Al Qaeda ma anche dal gruppo locale Ansaroul Islam del predicatore Ibrahim Malam Dicko, hanno assunto una frequenza crescente, e dopo sei anni i numeri sono drammatici: oltre 2.000 morti (di cui almeno 400 militari) e più di 1,4 milioni di persone costrette alla fuga e sfollate, su una popolazione che si aggira intorno ai 20 milioni di abitanti.
Contro una minaccia terroristica di tale entità, l’esercito burkinabé ha presto rivelato la propria inadeguatezza, sia per la scarsità di mezzi che per l’insufficiente numero delle milizie. In molte aree del Paese, in particolare in quelle del Sahel, i gruppi armati controllano traffici illeciti di armi e di esseri umani ma gestiscono anche molte miniere d’oro artigianali. Lì lo Stato è ormai pressoché assente e le forze militari sono concentrate in piccole basi nel mezzo di un deserto in cui la violenza jihadista è costantemente in agguato. Neppure la fondazione nel 2017 della Coalizione G5, di cui il Burkina Faso fa parte insieme al Ciad, al Mali, alla Mauritania e al Niger, con il sostegno di partner internazionali, ha apportato progressi nella lotta al terrorismo jihadista. E’ probabilmente proprio a causa della debolezza militare del Burkina Faso di fronte a un’emorragia di violenza tanto irrefrenabile che il Parlamento di Ouagadougou ha approvato nel 2020 una legge per l’istituzione dei “Volontari per la difesa della patria”, milizie di civili armati per la difesa delle loro comunità. Un segnale di fragilità che non ha fatto che accrescere la rabbia dei burkinabé nei confronti del governo. I centri presidiati dai “volontari per la difesa”, male addestrati, poco equipaggiati e disorganizzati, sono diventati del resto un facilissimo bersaglio dei jihadisti, che possono compiervi abusi e saccheggi incontrandovi una ben inadeguata resistenza.
Non è solo contro uno Stato ritenuto incapace di difendere la sua popolazione e il suo stesso esercito dalla violenza jihadista e dalla miseria che la popolazione è in rivolta. Nelle piazze, è forte anche l’insofferenza nei confronti delle forze militari francesi nel Paese. Tale presenza, giustificata con la lotta al terrorismo, sarebbe, secondo i manifestanti, mirata esclusivamente a tutelare gli interessi politici ed economici dell’ex colonia. L’attrito con la Francia ha raggiunto il suo apice il 19 novembre, quando una barricata umana ha bloccato un convoglio di truppe francesi di scorta a 90 camion diretti in Niger su una strada nella città di Kaya. Intorno ai veicoli armati, secondo Reuters, si sarebbero radunati centinaia di manifestanti con cartelli anti-francesi che recitavano, ad esempio, “Kaya dice all’esercito francese di andare a casa”. Secondo alcuni cittadini, i camion scortati dai blindati francesi contenevano addirittura armi destinate ai terroristi. Soltanto dopo quasi una settimana di blocco, i veicoli militari hanno potuto riprendere il loro viaggio. Nonostante l’esercito francese e quello burkinabé accorso in suo soccorso lo abbiano negato, affermando di aver sparato solo in aria per disperdere la folla, secondo alcune fonti la manifestazione contro le truppe francesi si sarebbe conclusa con diversi feriti da arma da fuoco tra i manifestanti: l’ospedale di Kaya ha parlato di quattro accessi in pronto soccorso per ferite riportate durante la protesta, il quotidiano locale Sidwaya di tre feriti. Resta il fatto che l’episodio di Kaya non ha fatto che inasprire gli animi e fomentare la collera anti-coloniale delle masse in rivolta.
“Il Presidente del Burkina Faso deve dimettersi, perché ben al di là del rispetto umano indiscutibile che nutriamo per lui, tecnicamente non è né l’uomo in grado di proteggere i burkinabé, tantomeno colui che può salvare la patria. La sua dimissioni saranno senza alcun dubbio benefiche in un Paese in lotta contro la propria distruzione”. Con queste parole il leader del Fronte Patriottico per il Rinnovamento, Aristide Ouedraogo, ha chiesto al Presidente Kaboré di fare un passo in dietro. Gli ha fatto eco, seppur con toni più miti, Eddie Komboigo, del Movimento popolare per il progresso, il primo partito di opposizione nel Paese. Non sono solo i partiti, però, a guidare le rivolte.
Si chiama “Sauvons le Burkina Faso” (Salviamo il Burkina Faso) uno dei movimenti nati dal basso che stanno conducendo le manifestazioni nella capitale e nelle altre città del Paese. Nel mirino il Presidente della Repubblica e la presenza militare francese. Diverse sono state le denunce di repressioni violente da parte della polizia per disperdere i manifestanti: arresti, spari, lancio di gas lacrimogeni, che hanno, ad esempio, causato almeno 20 feriti durante la manifestazione del 27 novembre scorso a Ouagadougou. Gli appelli a scendere per le strade, però, non si fermano.
In una lettera pubblicata dal movimento, indirizzata al Presidente della Repubblica, si legge: “Una legge di finanziamento militare di 725 miliardi votata dall’assemblea nazionale per equipaggiare come si conviene il nostro esercito, fondi erogati solo per i 2/5, non è riuscita sfortunatamente ad evitare ai nostri soldati di farsi massacrare nella fame. Mentre la popolazione piange e si disperde senza speranza apparente, e mentre il Paese è occupato per due terzi da uomini armati che dettano le loro leggi, i nostri leader fanno a gara di diversivi (…) Da quando noi giovani del Burkina Faso abbiamo deciso, in piena sovranità, di prendere il nostro destino in mano, una repressione barbara e una caccia alle streghe si sono abbattute su di noi. Gli arresti e le intimidazioni si sono moltiplicati dal 16 novembre scorso, la prima data scelta dal movimento Sauvons le Burkina Faso per chiedere le dimissioni del Presidente Kaboré, e continuano a verificarsi”.
Sono i social, ancora una volta, il mezzo più efficace utilizzato dagli attivisti per lanciare i loro appelli e richiamare i cittadini nelle piazze. Sulle pagine Facebook e Twitter di “Sauvons le Burkina Faso”, ad esempio, vengono diffusi video, appuntamenti, ma anche aggiornamenti costanti sui feriti e gli attivisti arrestati. Come Mamadou Drabo, membro del comitato del movimento, arrestato per essere stato tra gli organizzatori della manifestazione del 27 novembre, o Anais Koro Drabo, arrestata nella stessa occasione e che in uno degli ultimi post della pagina Facebook appare sorridente con una maglietta a righe bianche, nere e fucsia, sulla foto evidenziato in rosso l’hashtag “Libera!”. “Tengono in prigione dei cittadini che sono usciti a manifestare senza armi”, si legge in un tweet, “Pensate che possa andare a finire bene?”. E ancora, immancabile, si cita Thomas Sankara, il Presidente che al Burkina Faso diede il nome e un sogno di libertà, ucciso nel 1987: “Come diceva Sankara, eliminate un Sankara e ne nasceranno altri cento. La nostra lotta mira a liberare il nostro popolo da coloro che l’hanno sempre oppresso”.
La potenza di internet è stata senz’altro riconosciuta anche dal governo burkinabé, che nella notte del 20 novembre ha tagliato l’accesso alle comunicazioni internet, restaurandolo del tutto solo il 28 novembre. Il tempo necessario per permettere al convoglio francese bloccato dai manifestanti di muoversi fino al Niger senza che nuovi attacchi contro i suoi veicoli venissero organizzati mediante i social. Un blackout che non è passato inosservato e che è stato denunciato da diversi attivisti. Un portavoce del governo ha risposto alle accuse di un’interruzione intenzionale del wi-fi in maniera sibillina: “Non so se si è trattato di un problema tecnico o meno”.
Intanto, le pagine che il Burkina Faso sta scrivendo in queste settimane potrebbero essere cruciali. Tra manifestazioni represse brutalmente, attivisti in carcere i cui manifesti fanno il giro del web, minacce terroristiche, complotti sugli armamenti venduti dagli europei ai terroristi, rivelazioni su un esercito costretto alla fame e tagli alla connessione internet per colpire le rivolte, il clima nel Paese negli ultimi anni non era mai stato così teso. Il “Paese degli uomini integri” sembra davvero intenzionato a una insurrezione decisiva per il proprio cambiamento.
Fonti:
https://www.crisisgroup.org/crisiswatch/december-alerts-and-november-trends#burkina-faso
https://lefaso.net/spip.php?article109042
https://twitter.com/sauvonslebf?fbclid=IwAR2CQWgMFOTgYsdfyrmnY61dS6Mu-Zj8iI7QLy6GHXvvDw3K0HHdroQMwzk
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