di Valeria Cagnazzo* –
Pagine Esteri, 25 novembre 2021 – “La terra non era un corpo, ma una ferita, / come è possibile viaggiare tra corpo e ferita? / Come abitarla? / La ferita comincia a trasformarsi in paternità / e la domanda a divenire spazio: / esci nello spazio, bambino”.
L’eco dei bombardamenti intorno alla sua casa in Libano era ancora martellante nella sua mente in quel settembre dell’’82 in cui si trasferì definitivamente in Francia. Adonis fu accolto con entusiasmo a Parigi: iniziò a tenere diverse letture alla Sorbona, i suoi “Canti di Mihyar il Damasceno” furono tradotti in versione integrale e nell’’84 fu nominato “Officier des arts et des lettres” del Ministero della Cultura francese. Negli anni seguenti, la risonanza del suo nome si propagò nel resto d’Europa e negli Stati Uniti, si moltiplicarono i premi e i riconoscimenti nei suoi confronti e ottenne persino l’incarico di delegato permanente aggiunto della Lega Araba all’Unesco.
Naturalizzato Francese, continuò a professare la sua natura di esiliato in una poesia che, cresciuta attraverso la sua innovazione modernista, era ormai tanto matura da disvelare senza inciampi una lingua chiara e al tempo stesso mistica e profetica, influenzata anche dalla tradizione del sufismo. La condizione di straniero e il tentativo costante di unire nella sua arte e nel suo nome la cultura orientale e occidentale trovano un vertice forse nella raccolta “Siggil”, in una celebre poesia che recita: “Non sono Gilgamesh, e nemmeno Ulisse, / non dall’Oriente, / dove il tempo è una miniera di polvere, / né dall’Occidente / dove il tempo è ferro arrugginito. / Ma dove vado, e che cosa farò / se dicessi: la poesia è il mio paese / e l’amore è il mio cammino?”.
Su quell’Oriente dal quale proveniva, Adonis non ha mai temuto di esprimere posizioni controcorrente, provocatorie a volte, tanto da essere definito da Edward Said “il poeta arabo più audace e provocatorio di oggi”. Nel 2002, all’indomani dall’attentato alle Torri Gemelle, quando mai come prima il divario tra i due mondi sembrava affilato e tagliente, dichiarò al New York Times che la cultura araba era finita. “Non esiste più una cultura del mondo arabo. Culturalmente parlando, noi siamo parte del mondo occidentale, ma solo come consumatori, non come creatori”. Questo dipendeva dal modo di pensare nei Paesi arabi: per il poeta secondo il quale “la poesia è una domanda che risponde a un’altra domanda”, quella araba era “una cultura che non lascia spazio a domande”. Questo per Adonis si ripercuoteva naturalmente sulla politica: anche forme di governo apparentemente laiche e i partiti nazionalisti e marxisti nei Paesi arabi avevano al loro interno una struttura intimamente “religiosa”, in quanto si presentavano al popolo come “rivelazioni”, capaci di produrre solide certezze e di disperdere qualsiasi forma di dubbio.
Questo non significava mai per Adonis sbilanciarsi politicamente. Quella convinzione sviluppata da giovane sul disimpegno del poeta rimase salda in Adonis, anche durante e dopo la primavera araba nel suo Paese d’origine, procurandogli numerose critiche e antipatie. “C’è una tendenza dei poeti e dei pittori del mondo arabo a essere impegnati politicamente”, ha dichiarato al Guardian una volta, “e c’è un sacco per cui lottare: per i diritti umani e per i Palestinesi; contro il colonialismo, il dispotismo arabo, il pensiero unico dei fondamentalismi. Io non sono contro questo impegno o contro di loro, ma non sono come loro. Un artista deve sempre stare dalla parte di ciò che è rivoluzionario, ma non dovrebbe mai essere come i rivoluzionari. (…) Io sto con Gandhi, non con Che Guevara”.
Una rivoluzione, però, era necessaria. Per distruggere quella struttura monolitica e monoteista dei Paesi arabi che avrebbe solo continuato a generare governi falsamente democratici e integralismi, secondo il poeta che di sé aveva detto “Io sono la rottura col passato, colui che sta rivoluzionando l’ordine delle cose”, urgeva “una rivoluzione della soggettività”. E la rivoluzione, alla fine, arrivò.
Anche la Siria, come il resto del mondo arabo, nel 2011 avvertì e reagì a quella “opprimente assenza di domande”. La rivoluzione della soggettività iniziò pacificamente, si organizzava sui social e si radunava nelle strade e nelle piazze con cortei e preghiere collettive. Il governo nominato da Bashar Assad all’inizio di quell’anno promise riforme statali che avrebbero aperto una “nuova era” di libertà e modernità per il Paese. Quando l’inverno lasciò il posto all’inarrestabile primavera, però, e la collera di un popolo assetato di domande si propagò in Siria, le proteste vennero respinte con una dura repressione. Il governo rispose alla rivolta con un pugno di ferro. Alle formazioni ribelli, che si erano nel frattempo divise in organizzazioni di matrici diverse, arrivarono finanziamenti e armamenti dall’estero per contrastare Bashar Assad. La degenerazione di quelle primavere è storia nota, ma già sul nascere di quell’insurrezione delle domande represse e del soggettivismo il poeta Adonis aveva rivelato un germe di preoccupazione, pur guardando a quelle insurrezioni con entusiasmo “per l’un per cento”.
Di fronte alle repressioni sanguinose con cui il regime baathista rispondeva alle manifestazioni, Adonis scrisse una lettera rivolta al Presidente Assad pubblicata sul quotidiano libanese “Al Safi”: “Né la realtà né la ragione credono che la democrazia sia sul punto di essere instaurata in Siria, subito dopo la caduta del regime di Assad. Non è possibile, però, accettare ancora questo regime violento di sicurezza in Siria”. Dall’altra parte, però, il poeta non riusciva ad applaudire alle manifestazioni di piazza: sin dal principio intravide anche nei movimenti ribelli la stessa tendenza al pensiero unico per la quale aveva criticato i regimi arabi. “La primavera araba è nata dai giovani arabi, ed è la prima volta che gli arabi non stanno imitando l’Occidente – è straordinario”, dichiarò al Guardian, ma aggiunse: “Non partirò mai da una manifestazione che parte da una moschea”. Quello che lo spaventava nell’opposizione al regime era l’assenza di laicità che comprometteva la rivoluzione sul nascere e il rifiuto dei ribelli a qualsiasi critica: “Non puoi arrivare alla democrazia in questo modo, credendo che solo tu, e nessun altro, possiedi la verità. L’opposizione è un regime avant la lettre”. Adonis, “fuggito dalla Siria nel ’56 e da cinquant’anni in lotta con quel Paese”, riconobbe prima di altri, a costo di critiche e minacce di morte, il seme del fanatismo in quelle primavere che avrebbero aperto le porte dei Paesi arabi all’estremismo armato. “Sono stati gli islamisti e gli affaristi e gli Americani a cogliere i frutti di questo momento rivoluzionario”.
Nonostante le sue coraggiose posizioni “profetiche”, neanche la poesia per Adonis potrebbe tra l’altro offrire alcuna forma di cambiamento: è nelle istituzioni familiari, sociali e politiche che un Paese cambia. Quello che la poesia può fare è “cambiare le relazioni tra le cose e tra le parole, in modo che un’altra immagine del mondo possa nascere”.
Primo vincitore arabo del premio tedesco “Goethe” nel 2011, Adonis è stato anche insignito nel 2017 del premio PEN/Nabokov per la letteratura per aver contribuito a “rendere l’arabo, una delle lingue poetiche più antiche del mondo, vibrante e urgente”, articolando “i suoi amati temi dell’identità, della memoria e dell’esilio in versi di una bellezza dolorosa”, e per essere “un ponte vivente tra le culture”.
Ha novantaquattro anni oggi Adonis e guarda la Siria da lontano, dal suo appartamento di stretti corridoi labirintici e libri vicino agli Champs Elysées. Anche quest’anno, nelle scommesse sul Nobel per la letteratura negli ambienti letterari circolava come sempre il suo nome, e ancora una volta quel premio non è arrivato. Sogna e scrive in francese, ma una parte in fondo a lui continua ad essere Ali Ahmed, un ragazzino legato a quel Paese che dalla primavera è uscito devastato. Quella terra che disperde i suoi figli come profughi di disperati sparsi per il mondo e respinti alle frontiere dell’Occidente e nella quale lui, Adonis, col suo nome mitologico e il suo accento francese, non ha più fatto ritorno. Pagine Esteri
*Valeria Cagnazzo (Galatina, 1993) è medico in formazione specialistica in Pediatria a Bologna. Come medico volontario è stata in Grecia, Libano ed Etiopia. Ha scritto di Palestina su agenzie online, tra cui Nena News Agency. Sue poesie sono comparse nella plaquette “Quando un letto si svuota in questa stanza” per il progetto “Le parole necessarie”, nella rivista “Poesia” (Crocetti editore) e su alcune riviste online. Ha collaborato con il Centro di Poesia Contemporanea di Bologna. Per la sezione inediti, nel 2018 ha vinto il premio di poesia “Elena Violani Landi” dell’Università di Bologna e il premio “Le stanze del Tempo” della Fondazione Claudi, mediante il quale nel 2019 ha pubblicato la sua prima silloge poetica, “Inondazioni” (Capire Editore). Nel 2020, il libro è stato selezionato nella triade finalista del premio “Pordenone legge – I poeti di vent’anni”.