AGGIORNAMENTO 13 FEBBRAIO
GERUSALEMME EST Violenti scontri la scorsa notte a Sheikh Jarrah tra abitanti palestinesi e i coloni israeliani giunti nel quartiere per aprire un “ufficio” del deputato di estrema destra Itamar Ben Gvir. Almeno due i feriti. Alcuni coloni israeliani ora pregano davanti all’abitazione della famiglia palestinese Salem che nei prossimi giorni o settimane rischia di essere espulsa con la forza dal quartiere. La presenza dei coloni sta provocando continui tafferugli. (Foto di Oren Ziv)
Vi invitiamo a leggere l’analisi degli avvenimenti a Sheikh Jarrah scritta per Pagine Esteri da Romana Rubeo.
Il colonialismo di insediamento presentato come “disputa immobiliare”.
Di Romana Rubeo*
Pagine Esteri, 28 gennaio 2022 – L’attenzione è tornata alta nel quartiere di Sheikh Jarrah, nella Gerusalemme Est Occupata, dopo lo sgombero forzato e la conseguente demolizione della casa della famiglia Salihya, nelle prime ore di mercoledì 19 gennaio, da parte delle autorità israeliane.
La vicenda in questione viene spesso presentata come una mera “disputa immobiliare”, così come impone la narrazione dominante israeliana che si riverbera, automaticamente, in quella cassa di risonanza rappresentata dai media mainstream in Occidente.
A uno sguardo più attento, però, è evidente che questa interpretazione è del tutto fuorviante e che, invece, Gerusalemme Est è teatro di fatti che riproducono, come in una sorta di microcosmo, il cuore stesso della questione palestinese: la terra ambita, sottratta, rubata e confiscata, che è al centro di ogni vicenda coloniale e, conseguentemente, anche delle scelte politiche israeliane. D’altra parte, il colonialismo d’insediamento è parte integrante della natura stessa dello stato di Israele, sin dagli albori dell’ideologia sionista che lo ha ispirato.
Cosa sta accadendo a Sheikh Jarrah
Il 10 marzo scorso, prima che una accesa rivolta popolare portasse la questione di Gerusalemme Est sulle prime pagine dei giornali, la società civile palestinese si era già attivata formalmente per attirare l’attenzione della comunità internazionale su quanto stava accadendo nella Città Santa.
Numerose organizzazioni per i diritti umani hanno firmato infatti un appello congiunto, rivolto alle cosiddette Procedure Speciali delle Nazioni Unite, ovvero a quegli esperti indipendenti che dovrebbero esprimersi in materia di diritti umani in un determinato territorio.
Tra i primi firmatari dell’appello figurano, tra gli altri, Al-Haq, un’associazione palestinese per la tutela dei diritti umani, Addameer, associazione che sostiene i diritti umani e i prigionieri politici, e Defense for Children International – Palestine. Vale la pena sottolineare che, qualche mese dopo, proprio queste associazioni sarebbero state oggetto di un provvedimento da parte di Israele che ne segnalava l’illegittimità e le classificava, senza alcuna prova a sostegno della sua tesi, come organizzazioni terroristiche.
“A Gerusalemme Est, illegalmente occupata e annessa, 15 famiglie gerosolimitane, per un totale di 37 abitazioni e circa 196 palestinesi […] sono a rischio imminente di sgombero forzato,” si legge nell’appello congiunto, che continua spiegando come “applicando, in modo illegittimo l’ordinamento interno israeliano a un territorio occupato, le corti israeliane si sono pronunciate in favore di azioni legali intraprese da organizzazioni di coloni per sfrattare le 15 famiglie palestinesi”.
Geograficamente, i luoghi interessati sono principalmente due: la zona di Batn Al-Hawa a Silwan e quella di Karm Al-Ja’ouni a Sheikh Jarrah.
È proprio da Sheikh Jarrah che, nel maggio scorso, è partita l’accesa mobilitazione palestinese, che ha poi innescato una violenta repressione da parte delle forze israeliane e infine, un’operazione militare ai danni della Striscia di Gaza in cui hanno perso la vita oltre 260 palestinesi, ma che ha al contempo determinato la formazione di una nuova coscienza popolare, pronta a sfidare con decisi atti di resistenza il regime di oppressione a cui il popolo palestinese è sottoposto.
Dalla scorsa primavera, si sono verificati dei cambiamenti significativi sulla scena politica israeliana: al governo di Benjamin Netanyahu, infatti, è succeduto quello guidato da Naftali Bennett, anch’egli leader di estrema destra, a capo di una coalizione quanto mai eterogenea e, per certi versi, zoppicante, che tuttavia non sembra in alcun modo distaccarsi dalle politiche del suo predecessore, soprattutto per quanto attiene all’espansione coloniale.
In effetti, i provvedimenti di sgombero interessano ora un numero di famiglie molto più elevato, tra cui, appunto la famiglia Saliyha che nulla ha potuto contro i bulldozer israeliani, nonostante gli strenui tentativi di difendere la sua terra e le sue proprietà.
La fallace narrazione israeliana
Le immagini di Mahmoud Saliyha, il capofamiglia, che sale sul tetto e minaccia di darsi fuoco pur di difendere la sua casa, hanno scosso l’opinione pubblica internazionale. Quelle dei bulldozer che, impietosamente, procedono alla demolizione dopo un raid nel cuore della notte, poi, hanno causato una vera e propria ondata di sdegno, danneggiando irreparabilmente l’immagine di Israele. Un’immagine che, peraltro, risulta sempre più compromessa, anche grazie alla forza simbolica di alcuni dei protagonisti delle lotte per Gerusalemme Est, in primis dei fratelli gemelli Muna e Mohammed El-Kurd, che sono stati addirittura nominati dalla rivista Time tra le 100 persone più influenti del 2021.
Israele, pertanto, ha un disperato bisogno di presentare una narrazione alternativa, che si fonda su due strategie parallele. Da una parte, come già accennato, si tenta di ridimensionare il tutto descrivendo gli eventi come una semplice “disputa immobiliare”. Dall’altra, si tenta di rivendicare la legittimità dei violenti sgomberi forzati e dell’occupazione delle proprietà palestinesi da parte dei coloni, sostenendo che quelle terre appartenessero originariamente ai coloni ebraici e che le famiglie palestinesi sarebbero, di conseguenza, dei residenti abusivi.
In particolare, si fa riferimento alla presunta perdita di terre che alcune associazioni ebraiche subirono nel 1948, durante il tumultuoso periodo che portò alla fondazione di Israele sulle rovine dei villaggi e delle città della Palestina storica. Tuttavia, si omette di dire che le famiglie che, effettivamente, si stanziarono a Sheikh Jarrah nel ’48, altri non erano se non i palestinesi resi rifugiati dalla cosiddetta Nakba, “catastrofe”, ovvero da tutto quel complesso di operazioni di pulizia etnica e di esodo forzato messe in atto dal nascituro stato di Israele.
Il colonialismo “legalizzato”
A conferma del fatto che la questione della terra sia dirimente e caratterizzante dell’intera esperienza israeliana, giova ricordare che, sin dall’anno della sua fondazione, Israele mette a punto un sistema legislativo teso a conferire una parvenza di legittimità alla sottrazione delle terre arabe. Dal 1948 in poi, infatti, si prepara il terreno per i meccanismi di confisca e requisizione di terre che saranno poi messi a sistema nella Legge sulla Proprietà degli Assenti del 1950 e nella Land Acquisition (Validation of Acts and Compensation) Law del 1953.
Con la prima, lo stato si appropria de facto delle proprietà dei palestinesi “assenti”, anche di coloro che, in seguito alla Nakba, si erano rifugiati a pochi chilometri di distanza e a cui veniva negato il diritto al ritorno. Con la seconda, si legalizzano le espropriazioni, anche in modo retroattivo, e si legittima l’uso di quelle terre a scopi militari o per la costruzione di insediamenti coloniali ebraici.
“La decisione di sottrarre terre arabe e trasferirle ai cittadini ebraici non è solo un atto di discriminazione, ma di vandalismo puro e semplice, in tutto equiparabile alle procedure perpetrate dal governo sudafricano nell’imposizione di un regime di apartheid sulla popolazione africana,” scrive Hanna Dib Nakkara nel suo saggio “Israeli Land Seizure Under Various Defense and Emergency Regulations”, pubblicato nel 1985 dal Journal of Palestine Studies.
Nel 1970, poi, viene approvata la cosiddetta Legal and Administrative Matters Law che consente solo ai cittadini ebrei israeliani di rivendicare il presunto possesso di terre acquisite prima del ‘48 a Gerusalemme Est, negando ai palestinesi la medesima possibilità. È allora che due organizzazioni di coloni, il Comitato della Comunità Sefardita e il Comitato della Knesset Israeliana, rivendicano la proprietà su quelle terre.
Pur volendo tralasciare, almeno per il momento, la fondamentale discriminazione razziale alla base di queste norme e il fatto che si tratta di leggi pertinenti l’ordinamento interno israeliano, e dunque non applicabili ai territori occupati e illegalmente annessi, giova ricordare che i cittadini ebraici avevano già ottenuto una compensazione economica per quelle terre nel 1948, rinunciando, pertanto, al diritto di proprietà; e che, nel 1956, quelle proprietà furono acquisite dalla Giordania in seguito a un accordo con l’agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi (UNRWA). Fu alla luce di quell’accordo che le famiglie di rifugiati palestinesi si stanziarono nei quartieri di Gerusalemme Est.
Ciò nonostante, in virtù del fatto che non avvenne mai un trasferimento formale di proprietà a beneficio delle famiglie palestinesi, nel 1972 le associazioni ebraiche registrarono quelle terre a proprio nome.
Negli anni ‘90, la presunta proprietà fu poi ceduta alla Nahalat Shimon International, una compagnia privata di coloni legalmente registrata negli Stati Uniti, che incoraggia le azioni legali promosse dai coloni ebraici contro le famiglie palestinesi. Tra il 2008 e il 2009, la Nahalat Shimon riesce nell’intento di sgomberare tre famiglie, i Fawzia Al-Kurd, gli Al-Ghawi e gli Hanoun.
Nel caso che attualmente riguarda la famiglia Saliyha, la giustificazione ufficiale da parte delle autorità israeliane per procedere all’esproprio consiste in un cambio di destinazione d’uso, ovvero la costruzione di una scuola sul sito delle terre della famiglia, che sostiene di averne acquisito la proprietà già prima del 1967. In realtà, questo territorio sorge in un punto strategico, tra Karm Al-Ja’ouni e l’Hotel Shepherd, un complesso in cui i coloni israeliani hanno già avviato numerose attività.
Purtroppo, non si tratta di un caso isolato. Attualmente circa 70 famiglie, per un totale di 300 palestinesi, tra cui moltissimi minori, rischiano di dover subire il triste destino della famiglia Saliyha, depredata per la seconda volta dei suoi averi, dopo il primo esodo forzato del 1948, che la vide costretta ad allontanarsi, come molti altri rifugiati palestinesi, dal villaggio di Ein Kerem.
Le norme violate
Già il semplice atto del trasferimento di migliaia di coloni israeliani nel cuore di Gerusalemme Est viola l’Articolo 49(6) della IV Convenzione di Ginevra, che sancisce che “la Potenza occupante non potrà procedere alla deportazione o al trasferimento di una parte della sua propria popolazione civile nel territorio da essa occupato.”
Gli sgomberi forzati, come quelli a cui stiamo assistendo in queste ore, violano “l’intero spettro dei diritti umani”, come esplicitato dal Fact Sheet 25 prodotto dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite.
Inoltre, l’applicazione dell’ordinamento interno israeliano al territorio occupato confligge con l’articolo 43 dei Regolamenti dell’Aja, che obbliga l’occupante a prendere “tutte le misure che dipendano da lui per ristabilire ed assicurare, per quanto è possibile, l’ordine pubblico e la vita pubblica, rispettando, salvo impedimento assoluto, le leggi vigenti nel paese.”
Tale principio è stato più volte ribadito dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, in particolare con la risoluzione 478 del 1980, con la quale si decide che “tutte le misure legislative e amministrative e le azioni passate dall’Israele, il Potere di occupazione, che hanno modificato o pretendono di modificare il carattere e lo stato della Città Santa di Gerusalemme,[…] non hanno valore legale e devono essere rescisse immediatamente.”
Vale, poi, la pena di ricordare che le stesse norme che la narrazione dominante israeliana pone a sostegno della legittimità delle sue azioni sono quanto mai controverse e si fondano su principi di segregazione e discriminazione razziale, gli stessi che hanno portato l’associazione israeliana B’tselem e Human Rights Watch a definire Israele uno stato di apartheid.
Come tutti i regimi coloniali, che pongono la discriminazione su base razziale quale principio fondante della loro stessa esistenza, Israele sta procedendo senza alcun ritegno di natura etica a operazioni di pulizia etnica graduali ma inesorabili.
Non esistono due verità alternative: esiste, invece, la propaganda di una potenza occupante che, da troppo tempo, agisce in palese violazione delle più elementari norme del diritto umanitario.
È giunto il momento, per la comunità internazionale, di dare seguito alle dichiarazioni di sdegno e di intraprendere azioni decise e mirate per far sì che ai palestinesi siano riconosciute quella dignità e quella giustizia che da troppi decenni si vedono negare e che, tuttavia, si rifiutano strenuamente di cedere.
* Romana Rubeo è una giornalista italiana, caporedattrice del The Palestine Chronicle. I suoi articoli sono apparsi in varie pubblicazioni online e riviste accademiche. Laureata in Lingue e Letterature Straniere, è specializzata in traduzioni giornalistiche e audiovisive.