di Francesca Marretta
Pagine Esteri, 23 giugno 2022 – L’ennesima carneficina di civili per mano di gruppi armati estremisti di stampo jihadista in Mali si è consumata lo scorso 17 giugno nell’area di Diallassagou e in altre due località vicine, a qualche chilometro da Bankass, una zona centrale del paese vicina alla frontiera col Burkina Faso. Almeno centotrentadue uccisi, secondo il bilancio ufficiale delle autorità di fatto di Bamako. L’agenzia di stampa Afp riporta testimonianze secondo cui morti e dispersi sarebbero più di duecento.
Questa volta i responsabili, secondo indicazioni governative, sarebbero da ricondurre alla Katiba Macina (operativa in Mali dal 2015), che fa parte del Jnim, il Gruppo di sostegno all’Islam e ai musulmani legato ad al-Qaeda nel Maghreb Islamico (Aqmi). Si tratterebbe di una rappresaglia contro la popolazione per l’appoggio fornito alle forze regolari, affiancate nelle operazioni antiterrorismo in quest’area dai mercenari russi ed internazionali del Gruppo Wagner.
Manifestazioni per invocare protezione da parte dello stato si sono tenute a Bankass martedì.
La giunta militare che guida il Mali dal 2020 sostiene di aver preso in mano le redini del paese per rispondere all’incapacità del governo di garantire sicurezza al paese. I militari maliani riaffermano che la sicurezza resta la priorità assoluta del governo.
Nel Sahel centrale e in particolare nella zona «delle tre frontiere», tra Burkina Faso, Mali e Niger, è in corso una lotta per il potere e il controllo del territorio tra estremisti dello Stato Islamico nel Grande Sahara (ISGS), affiliato all’ISIS, e gruppi che fanno capo ad al-Qaeda come Katiba Macina. A questi si aggiungono milizie di autodifesa locale, esponenti del crimine organizzato (naturalmente armati) e trafficanti vari.
Secondo fonti accreditate il Gruppo Wagner, ritenuta da alcuni la longa manus armata del Cremlino, é operativo in Mali a fianco delle FAMA, le forze armate maliane, dallo scorso dicembre con un migliaio di uomini. Mosca e Bamako negano un ruolo da quinta Colonna di Wagner, definendolo piuttosto una compagnia privata che presta consulenza a pagamento.
I civili uccisi ogni giorno nelle guerre in corso nel Sahel centrale non hanno nomi né volti, non bucano il video. Restano statistiche, anche quando i numeri fanno rabbrividire. Secondo un rapporto pubblicato il 16 giugno dalla «Coalition Citoyenne pour le Sahel», organizzazione che raggruppa Ong saheliane ed internazionali impegnate nella difesa dei diritti umani, il numero dei civili uccisi dagli estremisti armati dell’ISGS é raddoppiato in un anno.
Le stragi di civili per mano di jihadisti (e non solo) si susseguono in queste aree sconfinate caratterizzate da ingovernabilità e insicurezza croniche. Venti civili inermi sono rimasti uccisi a Ebak, a una decina di chilometri da Gao, principale città a nord del Mali, il 18 giugno. Come accade dopo ogni attacco armato l’orrore e il panico che ne consegue scatena in poche ore la fuga di diverse centinaia di persone.
Per esempio dopo un attacco non rivendicato tra l’11 e il 12 giugno scorso nel villaggio di Seyetenga, a nord del Burkina Faso in cui 86 civili sono stati uccisi, i nuovi sfollati alla conta sono risultati oltre 16mila. In cerca di nuove strategia per fronteggiare la minaccia terroristica, lunedì scorso (20 giugno) il presidente del governo di transizione del Burkina ha annunciato la creazione di due zone « di interesse militare » nel nord del paese in cui é « vietata la presenza umana » Gruppi affiliati ad ISIS e al-Qaeda hanno provocato migliaia di morti ed 1,9 milioni di sfollati in Burkina Faso dal 2015.
Il Mix Migration Center, network internazionale di ricerca sulle migrazioni, parla di 2,4 milioni di sfollati a causa dei conflitti nel Sahel centrale nel 2021 (2,2 milioni di sfollati interni e 190.000 rifugiati).
In un contesto segnato dall’incapacità dei governi di garantire sicurezza sull’intero territorio i gruppi armati sottomettono le popolazioni, che talvolta, terrorizzate possono spontaneamente aderire a un gruppo piuttosto che un altro in cambio di protezione.
Come spiega anche uno studio sull’espansione di al-Qaeda in Africa realizzato per conto del centro anti-terrorismo a stelle e strisce di Westpoint (che nell’introduzione specifica come il contenuto rifletta il punto di vista dell’autore e non del governo degli Stati Uniti), le strategie di propagazione (usate anche dal franchising dell’ISIS) in contesti quali quello saheliano perpetuano tattiche come la creazione di legami con milizie locali, che spesso interagiscono con chi é dedito alla guerra santa per vile denaro, lo sfruttamento di diatribe locali, l’integrazione nelle comunità, lo sfruttamento di conflitti agro-pastorali storici e la capitalizzazione sul dissenso interno o esterno.
I governi di cinque paesi del Sahel (Chad, Burkina Faso, Mali, Mauritania e Niger) lavorano dal 2014 in maniera congiunta per contrastare terrorismo e crimine organizzato con la coalizione G5 Sahel. Nel 2017 il G5 Sahel si é dotato di una forza militare congiunta di interposizione addestrata a livello internazionale (Force conjointe FC-G5S).
La geografia e la demografia dei paesi del G5 (omogenei da questo punto di vista) non aiuta la logistica militare. Si pensi che solo il Mali è grande quattro volte l’Italia, ma é popolato solo da 14 milioni di abitanti. Le forze di sicurezza di questi paesi restano nel mirino dei gruppi armati e sono spesso vittime di attacchi. Pochi giorni fa Bamako ha annunciato il ritiro de propri militari dalla Force conjointe (sostenendo che questa sia oggetto di interferenze esterne). Si tratta dell’ultimo scacco scaturito dalle crescenti tensioni tra il Mali e la comunità internazionale (paesi dell’Unione Economica e Monetaria dell’Africa Occidentale – ECOWAS, Unione Europea e Francia). Un mossa che potrebbe dare il colpo di grazia a una situazione già aggravata dalla dipartita delle forze francesi dal Mali.
L’instabilità politica della regione, interessata da colpi di stato, vanifica gli sforzi intrapresi per migliorare la sicurezza, finanziati per gran parte dall’Unione Europea. Violenze e abusi commessi dalle forze governative nelle zone a forte presenza jihadista contribuiscono al rafforzamento degli estremisti islamci.
Prendiamo il caso di Moura, in Mali, dove in un’area controllata dagli estrmisti islamici a marzo scorso si é consumata una carneficina per mano dei militari di Bamako affiancati dai loro “consiglieri” del Gruppo Wagner. Human Rights Watch (HRW) ha parlato dell’esecuzione sommaria di oltre trecentocinquanta persone, descritta come la peggiore atrocità vista nel paese negli ultimi dieci anni.
Per colpire i terroristi non si va per il sottile e di mezzo ci finiscono innocenti.
Ritenendo il Gruppo Wagner responsabile di violazioni del diritto internazionale e del diritto internazionale umanitario per azioni contro civili, destabilizzazione politica e saccheggio di risorse in determinati paesi, a dicembre 2021 i ministri degli Esteri dell’Unione Europea hanno adottato misure restrittive, imponendo sanzioni ad individui e società facenti capo a tali contractor.
Le dinamiche osservate nel Sahel appaiono simili a quelle viste in altre no man’s land geograficamente lontane, come per esempio nell’Afghanistan pre-abbandono internazionale.
In assenza della protezione da parte dello stato l’alternativa per popolazioni indifese é tra il male minore. Nel Sahel si puo’ essere costretti alla sottomissione all’ISIS o al-Qaeda perché la lealtà alle forze regolari puo’ provocare vendette come quella già citata di Diallassagou.
E’ un cane che si morde la coda.
Nei villaggi afghani l’alternativa talebana era spesso preferita al dominio dei signori della guerra poiché questi almeno non violentavano le donne. Gli aderenti alla guerra santa nel Sahel centrale fanno la cresta sul narcotraffico come i Talebani afghani. Anche qui se consumare droga é peccato, tassarla é lecito.
E dire che meno di un anno fa il presidente francese Emmanuel Macron aveva salutato la « neutralizzazione » – termine usato nel suo tweet celebratorio – per mano delle forze francesi del capo di ISGS Adnan Abu Walid al-Sahrawi come « un altro successo nel Sahel ».
Più lucido e consapevole il punto di osservazione dell’Alto Rappresentante per la politica estera dell’Unione Europea Josep Borrell, che a più riprese ha ammesso quanto nonostante i massici sforzi economici e militari messi in campo nel Sahel attingendo alle tasche del contribuente europeo, la strada, in quanto a lotta al terrorismo e al crimine organizzato, resti in salita. Borrell ha anche rilevato che senza un miglioramento delle condizioni socio economiche e l’inclusione significativa della società civile nei processi democratici da parte dei governi non si va da nessuna parte.
Ad aprile scorso il capo della diplomazia UE ha annunciato la sospensione degli addestramenti di tipo militare forniti dall’UE in Mali, specificando allo stesso tempo che «il Sahel resta una priorità» per l’Europa.
Fino a quando questa vasta e strategica area resterà ingovernabile sarà difficile garantirne la sicurezza, indispensabile per progredire quanto a miglioramento socio economico e dei diritti di base. Si tratta di processi lunghi, di crisi strutturali. Il COVID seguito dalla crisi alimentare collegata alla guerra in Ucraina impattano in maniera drammatica sulla già precaria situazione saheliana.
Secondo il Programma Alimentare Mondiale (WFP) il numero di persone interessate da gravi carenze alimentari nel Sahel e nell’Africa occidentale é quadruplicato in tre anni da 10,7 milioni nel 2019 a 41 milioni nel 2022.
Eppure paesi che non hanno mezzi accolgono un gran numero di rifugiati. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) ha dichiarato il 20 giugno che sono 70.000 i richiedenti asilo in Mali, provenienti da Burkina Faso, Mauritania e Niger. Ecco perché la manovra della Gran Bretagna che stringe accordi col Ruanda per spedirci a pagamento i quattro che attraversano la Manica desta particolare indignazione.
Per i profughi del Sahel, uomini, donne e bambini con nome e cognome non si registrano gare di solidarietà. Sono quelli da aiutare a casa loro. Pagine Esteri