di Michele Giorgio –
Pagine Esteri, 4 luglio 2022 – «Le manovre militari hanno accresciuto la fiducia tra i paesi partecipanti e migliorato la comprensione e la cooperazione reciproche». È una parte del comunicato diffuso venerdì sera dall’ambasciata Usa a Tripoli per sottolineare la soddisfazione di Washington per la partecipazione della Libia alle recenti esercitazioni Phoenix Express 22 in Tunisia assieme a 11 Stati arabi ed europei. In quello stesso momento stava esplodendo nel paese la protesta popolare più ampia dal 2011, per il netto peggioramento delle condizioni di vita e la paralisi della politica. È solo uno dei paradossi che strangolano il paese nordafricano oggetto degli appetiti dell’Occidente, per i suoi giacimenti di petrolio e la sua posizione nel Mediterraneo, e allo stesso tempo abbandonato al suo destino.
A Tobruk venerdì sono divampate le proteste più ampie e dure. I dimostranti hanno dato alle fiamme spazzatura e copertoni davanti alla sede della Camera dei Rappresentanti. Poi sono entrati nell’edificio distruggendo documenti, scrivanie, scaffali mentre la piazza scandiva lo slogan più noto delle rivolte arabe del 2011: «Il popolo vuole la caduta del regime». La protesta in poche ore si è allargata ad altre città. A Bengasi, roccaforte dell’uomo forte, il generale Khalifa Haftar, centinaia di persone hanno scandito «Libia, Libia» e chiesto migliori condizioni di vita. A Misurata i manifestanti hanno cercato di fare irruzione nella sede della municipalità. Poi l’onda ha raggiunto Tripoli dove centinaia di persone, soprattutto giovani, si sono radunate nella Piazza dei Martiri, l’ex Piazza Verde, per chiedere lo svolgimento di elezioni presidenziali e parlamentari. Quindi i manifestanti si sono diretti verso il quartier generale del primo ministro. Le forze di sicurezza li hanno allontanati sparando in aria. Ma la protesta non è cessata. Ieri sono state alzate barricate sulle principali arterie stradali a est della capitale, in particolare a Tajoura.
Impoveriti, penalizzati da interruzioni di corrente elettrica fino a 18 ore al giorno con temperature che arrivano anche a 45 gradi, danneggiati dall’aumento dei prezzi dei generi alimentari, senza carburante anche se il paese ha tra le più grandi riserve di petrolio accertate dell’Africa, i libici sono impantanati nel caos provocato dalle varie fazioni, spesso anche armate, e dai ripetuti round di conflitto tra i leader di Tripoli e Bengasi. Ciò mentre i colloqui di questa settimana a Ginevra, volti a rompere la situazione di stallo tra le istituzioni libiche rivali, non sono riusciti ad accorciare le differenze.
Le elezioni presidenziali e parlamentari, originariamente fissate per il 24 dicembre dello scorso anno, avevano lo scopo di concludere il processo avviato dall’Onu dopo la fine dell’ultimo round di guerra e violenze nel 2020. Ma il voto non ha mai avuto luogo a causa di candidature controverse e profondi disaccordi tra i centri di potere contrapposti a est e ovest. A febbraio lo stallo si è persino aggravato. Il primo ministro ad interim Abdulhamid Dabaiba ha proclamato di non voler lasciare il governo di Tripoli, mentre l’ex ministro degli interni Fathi Bashagha, sostenuto dalla Camera dei rappresentanti (assaltata a Tobruk) e dall’uomo forte Khalifa Haftar, si è proclamato nuovo premier. Da lì non si sono fatti passi in avanti. Eppure, l’economia dovrebbe essere la priorità assoluta perché il paese importa quasi tutto il suo cibo e la guerra in Ucraina ha fatto salire i prezzi al consumo a livelli insostenibili. Il settore energetico, che durante l’era Gheddafi finanziava il welfare, è vittima di divisioni politiche, con un’ondata di chiusure forzate di impianti petroliferi. La cosiddetta l’amministrazione orientale ha chiuso i rubinetti del petrolio per imporre il trasferimento del potere a Bashagha. E la National Oil Corporation ha annunciato perdite per oltre 3,5 miliardi di dollari a causa delle chiusure e del calo della produzione di gas, che ha un effetto a catena sulla rete elettrica. Un clima che il premier di Tripoli Dabaiba ieri ha colto per cavalcare la protesta e attaccare i suoi avversari. Pagine Esteri