di Valeria Cagnazzo*
Pagine Esteri, 14 ottobre 2022 – Le temperature a Sharm El-Sheikh nel mese di novembre dovrebbero oscillare tra i 20 e 28 gradi: perfette per concedere ai partecipanti alla COP27 provenienti da tutto il mondo alcune riposanti pause dai dibattiti ecologici sulle sue spiagge bianchissime. La sede, si legge sul sito delle Nazioni Unite dedicato all’evento, non è stata scelta a caso: “circondata da due spettacolari aree protette, Sharm El-Sheikh è un posto che ispirerà i partecipanti a combattere il cambiamento climatico e a proteggere il pianeta”. Ci si augura quindi che i mari cristallini possano essere adeguatamente di “ispirazione” per ministri, ONG, imprese e rappresentanti della società civile dei Paesi membri delle Nazioni Unite che da oggi fino al 18 novembre si riuniranno in Egitto in occasione della ventisettesima “Conference of Parties” (COP), l’incontro annuale sul cambiamento climatico indetto dall’ONU a partire dal Summit della Terra del 1992 a Rio.
È entusiasta di poter fare gli onori di casa il ministro degli Affari Esteri della Presidenza Al Sisi, designato Presidente della COP27, H. E. Sameh Shoukry, che ha sottolineato il rischio di una “erosione della fiducia” in merito ad eventi del genere se il mondo sviluppato non sarà in grado di tenere fede ai suoi impegni. “Dobbiamo agire”, ha dichiarato, “e dobbiamo farlo subito, per salvare vite e mezzi di sussistenza”.
A favorire la mobilitazione dei Paesi del COP27 contribuirà Coca-Cola, sponsor ufficiale dell’evento. Nell’annunciare la partnership, la multinazionale ha dichiarato: “Il clima è un’area di interesse centrale dato che la Compagnia Coca-Cola lavora verso il suo obiettivo “science based” per il 2030 di una riduzione assoluta delle emissioni del 25% e verso la sua ambizione di essere a zero emissioni nette di carbonio entro il 2050”. A proposito dello sponsorship, “molte persone avranno pensato a uno scherzo, seppure di cattivo gusto”, ha commentato l’ONG Greenpeace, che ha ricordato il primato di Coca Cola nella produzione di rifiuti in plastica. “Ci auguriamo che l’accordo di sponsorizzazione siglato per la COP27 sul clima possa essere il preludio a un annuncio pubblico in cui Coca-Cola si erga al ruolo di leader globale nella lotta alla crisi climatica e all’inquinamento da plastica”, si legge sul sito dell’organizzazione ambientalista. “Qualora così non fosse, la sponsorizzazione risulterà uno dei casi più noti di inquinamento dei negoziati sul clima, nonché l’ennesimo caso – stavolta davvero eclatante – di greenwashing aziendale.”.
Non è solo aziendale, del resto, il greenwashing che l’evento più green dell’anno rischia di apportare. Con i fondi del marchio Coca-Cola si definiscono in questi giorni gli ultimi dettagli per la realizzazione dei padiglioni dell’evento, compresa la cosiddetta “Green Zone”(zona verde), un’area in cui, si legge sempre sulla pagina ufficiale della COP27, “imprese, giovani, società civili e indigene, accademici, artisti e aziende della moda da tutto il mondo potranno esprimere se stessi e far sentire le proprie voci. La Green Zone promuove il dialogo, la consapevolezza, l’educazione”.
Peccato, però, che mentre a Sharm El-Sheikh viene confezionato un piccolo atollo architettonico in cui i giovani di tutto il mondo possano “far sentire le proprie voci”, subito fuori dall’area del COP27 le carceri egiziane ospitano decine di migliaia di dissidenti politici, secondo l’organizzazione Human Rights Watch. Tra di loro giornalisti e attivisti per i diritti umani, in un Paese in cui si continua a morire in prigione e in cui gli oppositori del governo rischiano arresti arbitrari, torture, minacce e ripercussioni sui propri familiari, sempre secondo quanto riferito dall’ONG.
Nell’Egitto che ospiterà la COP27 e inviterà gli attivisti più giovani a confrontarsi liberamente nella “zona green”, dal 2019 è tra l’altro in vigore una legge che proibisce di “condurre sondaggi di opinione e pubblicare o rendere disponibili i propri risultati o condurre ricerche sul campo o divulgare i propri risultati” senza l’approvazione del governo.
A rimarcare una contraddizione tanto stridente è stata negli ultimi mesi la giornalista e attivista Naomi Klein, autrice del best-seller No Logo, che il 7 ottobre scorso ha firmato sul The Intercept un articolo incandescente dal titolo “Da Blah blah blah a Blood blood blood – Tenere il Summit COP27 nello Stato di Polizia egiziano crea una crisi morale per il movimento per il clima”.
Già nei mesi scorsi Klein aveva denunciato l’ipocrisia internazionale di svolgere il più importante evento sul clima nel Paese guidato dal 2013 dall’autoritario governo di Al Sisi. A cento giorni dall’inaugurazione della COP27, aveva anche firmato una lettera, insieme ad altri attivisti, per esprimere tutte le perplessità sulla scelta della sede. Il suo nuovo articolo su The Intercept parte dalla storia di Alaa Abd El Fattah, uno dei più celebri prigionieri politici egiziani.
Arrestato nel 2011 per la sua partecipazione alle proteste contro Mubarak, ha trascorso gran parte degli ultimi dieci anni in prigione, con accuse di aver partecipato a manifestazioni non autorizzate o di aver diffuso notizie false. L’ultima condanna, a cinque anni, risale al 2021 proprio per quest’ultimo capo d’accusa e dal 2020 è iscritto nell’elenco nazionale dei terroristi.
Dal 4 aprile, Abd El Fattah, intellettuale e informatico quarantunenne, tra i volti più noti della primavera araba, è in sciopero della fame per protestare contro il suo arresto arbitrario e contro quello di migliaia di altri attivisti come lui. Nonostante diversi appelli internazionali, compresi quelli, ripetuti, di Amnesty International, resta, però, in carcere. Dalla sua cella, continua a scrivere lettere alla famiglia nelle quali affronta questioni di politica, di libertà e di clima – una parte dei suoi scritti è confluita nel libro “Non siete stati ancora sconfitti”, edito in Italia nel 2021.
E’ proprio a partire da una sua lettera scomparsa che Klein si interroga sulla sensatezza di svolgere il raduno dell’ONU sull’ambiente proprio a Sharm El-Sheikh. Una lettera che Abd El Fattah ha scritto ai suoi familiari circa un mese fa e in cui manifestava le sue preoccupazioni per le vittime e gli oltre 33 milioni di sfollati dopo le alluvioni che avevano colpito il Pakistan, tra le tante drammatiche conseguenze del surriscaldamento globale. La missiva è stata, tuttavia, confiscata dalla censura egiziana prima di essere recapitata ai suoi destinatari.
“La sua famiglia vive per queste lettere”, scrive Klein, ma non è solo questo il punto. La lettera eliminata dalle autorità egiziane perché toccava tematiche “troppo politiche” è stata, infatti, scritta da un prigioniero scheletrico, che ha rinunciato ad alimentarsi perché detenuto ingiustamente, che dalla sua cella, nonostante tutto, continua a preoccuparsi per il clima del pianeta. Fuori dalle sbarre, il mondo sta per riunirsi per discutere del clima in dibattiti pomposi, dimenticandosi, però, di lui, Abd El Fattah, e della sua fame.
Nei video promozionali della COP27, sottolinea Klein, la beffa è che l’Egitto “si stia vendendo” mostrando giovani uomini con barbe folte e collane al collo, che assomigliano molto “ai veri attivisti che stanno soffrendo sotto tortura nel suo arcipelago di prigioni in rapida espansione”. Gli attori dei video bevono esclusivamente da borracce personali e utilizzano soltanto oggetti biodegradabili, e attraverso lo schermo l’impressione che si vuole trasmettere è che sia questa la prerogativa del governo di El Sisi: assicurarsi che tutti i suoi cittadini vivano in maniera ecologica. Lo scenario proposto sembra quello di un “reality show verde in riva al mare”, ironizza Klein. “Questo summit andrà ben oltre il greenwashing di uno Stato inquinante: sarà il greenwashing di uno stato di polizia. E con il fascismo in marcia dall’Italia al Brasile, non è una questione da poco”.
Dell’inquinamento egiziano, tra l’altro, i delegati internazionali non possono sapere troppo, dato che per la legge del 2019 nessun dato scientifico può essere pubblicato senza il consenso del governo. Il pugno di ferro di El Sisi, infatti, non è rivolto solo contro gli attivisti politici: Human Rights Watch ha riferito che diversi gruppi ambientalisti sono stati costretti a rivedere i loro progetti di ricerca e che uno di questi ha addirittura dovuto annullare la sua ricerca sull’ambiente a causa delle limitazioni del governo.
E allora perché, si domanda Klein, perseverare e svolgere il summit sul clima proprio in Egitto? Gli interessi economici messi in campo non sono da trascurare. In settembre, la Gran Bretagna ha annunciato un finanziamento di 100 milioni di dollari “per supportare le start-up locali” in Egitto. Un altro accordo per un valore di 11 miliardi di dollari è stato firmato tra il governo di El Sisi e l’azienda energetica Globeleq per finanziare la produzione di idrogeno verde nel Paese. Anche la Germania è tra i maggiori partner commerciali dell’Egitto, e in quest’occasione dovrà probabilmente tralasciare i dissidi etici e la nuova “politica estera basata sui valori” che la Ministra degli Esteri del Partito dei Verdi, Annalena Baerbock annunciava al momento della sua nomina, neanche un anno fa. Per molti Paesi come la Germania, tra l’altro, nella crisi del gas l’Egitto potrebbe essere un prezioso esportatore da tenersi stretto. Sono sufficienti questi accordi economici dichiarati e quelli sottobanco a far intuire che l’ipotesi che la COP27 venga annullata a un mese dall’inaugurazione si possa tranquillamente scartare.
Farebbe sorridere, se non recasse dietro di sé le pesantissime implicazioni per i diritti umani e per le singole esistenze dei cittadini, l’idea ironica di Klein che gli egiziani siano il terreno sacrificale per il “progresso” climatico. “Magari”, scrive, inoltre, ci fosse la remota eventualità che questo summit svolto brutalmente in un regime dittatoriale possa sortire qualche conseguenza positiva per il clima. Non solo per le contraddizioni etiche già citate, ma anche per alcuni limiti oggettivi. L’Egitto, ad esempio, fa parte dei Paesi a basse emissioni ma severamente colpiti dai cambiamenti climatici, quelli per i quali la COP27 dovrebbe concordare un’adeguata politica di risarcimenti. ”Il problema è che se quei debiti climatici vengono pagati senza confrontarsi con le reti finanziarie e militari internazionali che sostengono governanti brutali come Sisi, i soldi non raggiungeranno mai la gente. Andranno, invece, ad assicurargli più armi, a fargli costruire più prigioni e finanziare più sprechi industriali che disperdono e immiserano ulteriormente gli egiziani più bisognosi”.
E’ solo il sangue, secondo Klein, a macchiare, già prima che sia iniziato, questo summit ambientale. “Se il summit dello scorso anno a Glasgow era su “blah blah blah”, il significato di questo (…) è decisamente più inquietante. Questo summit è su “Blood blood blood” (sangue sangue sangue). Il sangue dei circa 1.000 manifestanti massacrati dall’esercito egiziano per difendere il potere del suo governante in carica. Il sangue di coloro che continuano ad essere assassinato. Il sangue di coloro che vengono picchiati per le strade e torturati in prigione, spesso a morte. Il sangue di persone come Alaa”.
E di Alaa Naomi Klein ricorda una frase, che il prigioniero scrisse nel 2019: “Sono il fantasma della primavera passata”. Sottolinea quanto sia impossibile affrontare e risolvere la questione ambientale se non vengono rispettate le libertà individuali e il rispetto per la vita umana, e quanto tutto questo “dovrebbe risultare ovvio a chiunque faccia parte del movimento per il clima”. “Dovrebbe”, appunto, perché il silenzio degli ambientalisti sull’assurdità di essere ospitati in uno scenario dittatoriale denuncia un’allarmante ipocrisia di sottofondo o una debolezza dell’attivismo per l’ambiente in tema di diritti alimentari. Per questo Naomi Klein invoca il fantasma di Alaa Abd El Fattah: “Quel fantasma infesterà il summit che sta arrivando, mandando un brivido attraverso ogni sua nobile parola. La domanda silenziosa che ci pone è netta: se la solidarietà internazionale è troppo debole per Alaa – un’icona dei sogni di libertà di una generazione – che speranza abbiamo di salvare una casa che sia abitabile?”. Pagine Esteri
*Valeria Cagnazzo (Galatina, 1993) è medico in formazione specialistica in Pediatria a Bologna. Come medico volontario è stata in Grecia, Libano ed Etiopia. Ha scritto di Palestina su agenzie online, tra cui Nena News Agency, anche sotto pseudonimo. Sue poesie sono comparse nella plaquette “Quando un letto si svuota in questa stanza” per il progetto “Le parole necessarie”, nella rivista “Poesia” (Crocetti editore) e su alcune riviste online. Ha collaborato con il Centro di Poesia Contemporanea di Bologna. Per la sezione inediti, nel 2018 ha vinto il premio di poesia “Elena Violani Landi” dell’Università di Bologna e il premio “Le stanze del Tempo” della Fondazione Claudi, mediante il quale nel 2019 ha pubblicato la sua prima silloge poetica, “Inondazioni” (Capire Editore). Nel 2020, il libro è stato selezionato nella triade finalista del premio “Pordenone legge – I poeti di vent’anni”.