di Patrizia Zanelli*

Pagine Esteri, 23 novembre 2022 –  In The Sound and the Fury, la descrizione della situazione dei membri di una famiglia aristocratica in decadenza serve a raffigurare il declino del Sud degli Stati Uniti avvenuto a seguito della guerra di secessione americana. Faulkner scrisse infatti il romanzo per evidenziare il legame tra eventi storici traumatici e crisi esistenziali personali. In un articolo pubblicato nel 2000 sul Journal of Arabic Literature, Aida Azouqa nota che similmente la Nakba è all’origine dei problemi dei protagonisti di “Tutto ciò che vi resta”: Maryam, una donna dalla vita sentimentale tormentata – il cui ruolo nel racconto è simile a quello di Caddy in The Sound and the Fury – e il fratello sedicenne Hamid. Come numerosi romanzieri occidentali, Kanafani era stato chiaramente influenzato dal freudismo e dall’esistenzialismo; usò la tipica crisi identitaria adolescenziale per raffigurare quella nazionale dovuta alla diaspora palestinese, in questo romanzo in cui ritrae appunto un adolescente per rappresentare la nazione. I conflitti interiori ed esterni affrontati da Hamid evocano la confusione di un’epoca della Storia del popolo della Palestina; il Tempo è il grande nemico del fratello e della sorella la cui infanzia felice è ormai soltanto un ricordo del passato da quando vivono in un campo profughi lontano da Giaffa, dove abitavano in un bel quartiere residenziale moderno con la loro famiglia del ceto medio-alto. La vita infelice di Maryam, dovuta alla lontananza dalla madre, da cui avrebbe potuto ricevere buoni consigli, evitando di mettersi nei guai, conclude Azouqa, rappresenta la disgrazia subita da un’intera nazione.

D’altra parte, “Tutto ciò che vi resta” è forse il romanzo più autobiografico di Kanafani, che da bambino aveva frequentato una scuola missionaria francese a Giaffa, per volontà del padre, un avvocato e attivista nazionalista, che esercitava la professione in quella fiorente città palestinese benché fosse lontana da Acri. Quando poi nell’aprile del ’48 aveva lasciato la Palestina con la famiglia, trovando rifugio in un villaggio sulla frontiera libanese, il dodicenne Ghassan avrà avuto la sensazione che il suo mondo dell’infanzia fosse crollato. Il padre aveva scelto quel paesino come una sistemazione provvisoria, convinto di poter tornare presto a casa, ma dopo la fondazione d’Israele e il prolungarsi dell’attesa decise di trasferirsi con la famiglia a Damasco. Nella capitale siriana il giovane Ghassan dovette lavorare, passando da un mestiere all’altro, per completare l’istruzione secondaria. Nel 1953, iniziò a insegnare in una delle scuole dell’UNRWA, a conoscere direttamente la dura realtà dei campi profughi, a maturare una maggiore consapevolezza politica e il desiderio di contribuire alla causa nazionale del suo popolo. Poi da studente universitario partecipò al movimento studentesco, attivismo per cui fu espulso dall’Università di Damasco, e da qui la decisione di raggiungere la sorella e il fratello in Kuwait, dove erano emigrati come molti altri esuli palestinesi, attratti dalle opportunità di lavoro presenti nel paese petrolifero.

Dunque, l’adolescenza particolarmente difficile vissuta dallo scrittore, accompagnata da una crescente politicizzazione, è simile a quella di Hamid, il protagonista di “Tutto ciò che vi resta”, che molti esperti considerano inoltre come una sorta di ponte, essendo un romanzo che presenta temi o motivi ripresi dall’autore nella fase successiva della sua produzione letteraria, durante la quale si avvicinò maggiormente alla letteratura impegnata teorizzata da Sartre, rinunciando alla tecnica del flusso di coscienza del modello faulkneriano. Questo cambiamento è dovuto a un altro trauma collettivo, una seconda sconfitta, che portò Kanafani a voler dar voce in modo più chiaroalle istanze politiche del suo popolo.

L’arte narrativa dello scrittore fu inevitabilmente influenzata dalla Naksa (Ricaduta), la disfatta militare araba nella guerra lanciata da Israele il 5 giugno 1967, per occupare i territori palestinesi di Gerusalemme Est, Cisgiordania e Gaza, le alture siriane del Golan e la Penisola del Sinai egiziana. Kanafani pubblicò, nell’anno seguente, il saggio “La letteratura palestinese della resistenza sotto occupazione, 1948-1968” 1 ; e nel 1969, il romanzo “Ritorno a Haifa” (2) . In quest’opera, l’autore descrive la situazione post-Naksa, per ricordare la Nakba e la Shoah, unendo la memoria storica delle tragedie dei due popoli. All’indomani della guerra di occupazione, le autorità israeliane effettivamente aprirono la frontiera tra Israele e i territori palestinesi appena occupati. Nel romanzo, il 30 giugno 1967, Said e la moglie Safiya partono in auto da Ramallah per andare a Haifa, dove non erano più potuti tornare dopo l’esodo di massa del 21 aprile 1948, provocato dall’aggressione compiuta dai miliziani sionisti con la complicità dei militari inglesi. Quel giorno lui e lei si trovavano per strada, l’uno lontano dall’altra, erano stati come risucchiati dalla folla di persone in fuga verso il porto durante il bombardamento, spinti su un’imbarcazione britannica e costretti a lasciare la città, senza avere avuto la possibilità di portare con sé il figlio di cinque mesi Khaldun, rimasto da solo a casa loro. È proprio nella speranza di ritrovarlo che i due protagonisti tornano a Haifa. Arrivati a destinazione, scoprono che la loro vecchia casa è abitata da una coppia di ebrei polacchi, Efrat e Miriam, divenuti i genitori adottivi di Khaldun, ora Dov, un soldato israeliano.

Kanafani riprese il modello faulkneriano, come lui stesso lo aveva rielaborato in “Uomini sotto il sole”, per creare appunto “Ritorno a Haifa”, in cui è fondamentale la retrospezione. Nel primo dei cinque capitoli del testo, Said e Safiya ricordano l’esodo coatto dalla città; e nel terzo, vengono esposti i fatti accaduti da quando Efrat e Miriam avevano lasciato Varsavia agli inizi del novembre del 1947, finché non si erano stabiliti, il 29 aprile del ’48, nella casa dei protagonisti palestinesi assenti, concessa agli stessi immigrati dall’Agenzia Ebraica a patto che adottassero il bambino ritrovato lì una settimana prima da una donna ebrea che abitava al piano superiore. La storia è narrata da un narratore esterno, e i punti di vista sono multipli in questo racconto, in cui l’autore ricostruisce e intreccia la memoria della Nakba con quella della Shoah. Il principio etico condiviso da tutti i personaggi, espresso nell’enunciato “all’ingiustizia non si pone rimedio con una nuova ingiustizia”, è il nodo centrale di un romanzo tematicamente complesso che unisce dati storici precisi riguardo al tragico conflitto tra i due popoli ad altri temi di portata universale, come l’amore genitoriale, la paternità, il patriottismo e l’idea stessa di patria. I genitori palestinesi sono gli sconfitti, i più deboli e sofferenti, eppure hanno la forza di ammettere i propri errori e le proprie debolezze, e di riconoscere perfino il dolore dell’altro. Nel romanzo, l’autore esprime una piena solidarietà con il popolo ebraico vittima delle persecuzioni naziste, rappresentato dalla coppia di ebrei polacchi appena sfuggiti all’Olocausto nel novembre del ‘47. Ma nel giugno del ’67, Efrat e Miriam rappresentano gli israeliani, i vincitori che, pur riconoscendo le sofferenze inferte ai palestinesi, trovano negli errori e nelle debolezze del popolo vinto un’autogiustificazione che li intrappola nelle loro stesse contraddizioni condensate nella figura di Khaldun/Dov. Il giovane educato all’odio, alla negazione della Nakba, chiuso nella sua crisi identitaria, è un figlio adottato/rubato/perduto, nato a Haifa pochi mesi prima che la città diventasse parte d’Israele come oltre la metà della Palestina. I genitori naturali si sentono in colpa per averlo abbandonato, pur sapendo di essere stati costretti a lasciarlo a casa da solo ancora lattante insieme alla loro terra.

Ancora una volta l’autore raffigura la relazione tra Spazio e Tempo nella Storia e la crisi identitaria di un adolescente associata a quella collettiva. Alla fine, però, Khaldun/Dov rappresenta la Nakba, un passato da dimenticare per Said e Safiya il cui figlio più giovane Khaled si è appena arruolato in un gruppo di fedayin per liberare il suo popolo. Lui è il presente e il futuro, conosce la propria identità e quella dei suoi genitori, che lo hanno cresciuto, raccontandogli la verità; quindi personifica la consapevolezza, l’autocoscienza nazionale, la rivoluzione, la salvezza della nazione. La crisi familiare non è però affatto risolta. I genitori, che hanno già perduto un figlio e non sopportano l’idea di perderne un altro, accettano con grande amarezza la decisione di Khaled di sacrificarsi per la patria. È altrettanto amara la constatazione che i due fratelli, entrambi vissuti sotto il peso di un destino crudele, potrebbero combattere l’uno contro l’altro. Solo la pace li può salvare.

In questo terzo romanzo di Kanafani, lo stile è più lineare, e il messaggio politico più esplicito, il che è tipico della letteratura palestinese della resistenza, nell’ambito della quale i sentimenti di rabbia e frustrazione vengono mitigati o addirittura soppiantati da una volontà di riscatto, alimentata dalla speranza nella possibilità di cambiare la situazione. Su “Ritorno a Haifa” si basano un omonimo film, del 1982, girato in Libano dal regista iracheno Kassem Hawal (n. 1940), e un altro, del 1995, intitolato “Il sopravvissuto”, diretto dal cineasta iraniano Seifollah Dad (1955-2009). Lo stesso romanzo ha inoltre ispirato diversi spettacoli teatrali presentati in vari paesi del mondo.

Per quanto riguarda invece “Gli ingannati”, l’adattamento di “Uomini sotto il sole”, Saleh cambiò non solo il titolo ma anche il finale dell’opera originale; nel film infatti i tre protagonisti bussano alle pareti della cisterna (3) . La loro richiesta d’aiuto rimane però inascoltata. Il regista egiziano, ideologicamente marxista, espresse così la propria rabbia nei confronti dei regimi arabi responsabili della Naksa, una seconda sconfitta che in ambito culturale stimolò da un lato l’impegno a registrare la memoria della Nakba e dall’altro una volontà di ribellarsi in generale, particolarmente spiccata nella cultura giovanile dell’epoca. In un articolo pubblicato nel 1976 sul periodico British Society for Middle Eastern Studies Bulletin, Hillary Kilpatrick ricorda che Kanafani vide il film e approvò il cambiamento del finale per il messaggio politico che veicolava; inoltre lo considerava una sorta di aggiornamento storico necessario. La passività dei protagonisti del romanzo ormai contrastava con la lotta armata che i profughi palestinesi stavano conducendo sin dagli anni ’60. Kanafani dava grande importanza all’arte, si identificava anzitutto come un artista, riteneva che lo scopo della letteratura fosse di contribuire alla trasformazione della società, ma come romanziere lui preferivaconcentrarsi sull’individuo, basandosi sulla propria esperienza personale e su quella delle persone che conosceva.

Questo atteggiamento letterario e politico dello scrittore palestinese spiega ulteriormente la sua predilezione per il modello faulkneriano. Va poi ricordato che, sempre nel 1969, Kanafani pubblicò “Umm Saad” (4) ; in questo caso, la narrazione è in prima persona, ma il narratore – che sembra essere l’autore reale – racconta la storia di un altro personaggio, una figura femminile veramente esistita. La protagonista del romanzo è una donna resiliente, una contadina sulla quarantina abituata al duro lavoro nei campi; rappresenta la resistenza palestinese e addirittura la Palestina stessa i cui figli l’avevano sempre coltivata e ora lottano per liberarla e tornare da lei. Umm Saad è la madre di tutti loro. Sembra che Kanafani abbia scritto questo romanzo dall’atmosfera fiabesca, per esporre in forma artistica le idee che aveva espresso nel già citato saggio sulla letteratura palestinese della resistenza. Nel libro dice infatti che il suo popolo aveva iniziato a lottare per liberare la patria difendendola dal colonialismo sionista sin dall’epoca del mandato britannico sulla Palestina. L’autore si concentra sui contadini palestinesi che in passato avevano sofferto per la vendita dei terreni ai coloni da parte dei latifondisti e dopo la Nakba soffrivano vivendo nei campi profughi.

In “Umm Saad”, il narratore del racconto sembra quasi un cantastorie moderno. Descrivendo la vicenda della protagonista, presenta man mano altri personaggi, di cui lei gli parla e così nasce di volta in volta una storia nella storia. Ciò spiega ancor più la frammentazione del racconto, un espediente narrativo generalmente volto anche a raffigurare la disgregazione sociale che caratterizza le società contemporanee, e di cui Kanafani si serviva per rappresentare la diaspora palestinese. Lo scrittore cercò nuove modalità artistiche per veicolare un messaggio rivoluzionario tramite questo breve romanzo, che scrisse attingendo alla letteratura popolare araba, senza però rinunciare a certe tecniche moderniste, e specialmente ai punti di vista multipli. L’autore riuscì a esprimere la propria creatività, fondendo perfettamente tradizione e modernità in “Umm Saad”, un’opera intrisa di quel tipico ottimismo che è la vera linfa della resilienza del popolo palestinese. È inoltre interessante ricordare che in un’intervista rilasciata al quotidiano kuwaitiano al-Siyāsa (La politica) durante questa seconda fase spiccatamente politicizzata della sua produzione narrativa, Kanafani dichiarò: “Per quanto mi riguarda, la politica e il romanzo sono tutt’uno e posso categoricamente affermare di essere diventato politicamente impegnato, perché sono un romanziere, e non viceversa”. Pagine Esteri

La prima parte dell’articolo di Patrizia Zanelli è a questo link: 

CULTURA. William Faulkner e i romanzi dello scrittore palestinese Ghassan Kanafani (1a parte)

NOTE

1) Kanafani scrisse questo saggio letterario per completare un altro dal titolo simile pubblicato sempre nel ’68 e che ricopre il periodo 1948-1966.

2) Ghassan Kanafani, Ritorno a Haifa, tr. Isabella Camera d’Afflitto, Rispostes, 1985; Edizioni Lavoro, 2014.

3) Il film “Gli ingannati” (al-Makhdū‘ūn) è noto anche col titolo inglese “The Dupes”.

4) Ghassan Kanafani, Umm Saad, tr. Isabella Camera d’Afflitto, Rispostes, 1985; Edizioni Lavoro, 2014.

 

*Patrizia Zanelli insegna Lingua e Letteratura Araba all’Università Ca’ Foscari di Venezia. È socia dell’EURAMAL (European Association for Modern Arabic Literature). Ha scritto L’arabo colloquiale egiziano (Cafoscarina, 2016); ed è coautrice con Paolo Branca e Barbara De Poli di Il sorriso della mezzaluna: satira, ironia e umorismo nella cultura araba (Carocci, 2011). Ha tradotto diverse opere letterarie, tra cui il romanzo Memorie di una gallina (Istituto per l’Oriente “C.A. Nallino”, 2021) dello scrittore palestinese Isḥāq Mūsà al-Ḥusaynī.