di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 12 gennaio 2023 – La repressione delle manifestazioni scatenate dall’arresto di Pedro Castillo dopo il fallimento dell’autogolpe tentato dall’ex presidente il 7 dicembre ha provocato un bagno di sangue.
Nell’ultimo mese sono state almeno 47 le vittime della violenza; l’ultima strage, la più sanguinosa, è stata compiuta dalle forze di sicurezza a Juliaca, nel dipartimento di Puno. Il bilancio provvisorio è di 18 vittime, ma potrebbe aumentare visto l’alto numero di feriti gravi.
Gli agenti e i militari incaricati di “ripristinare l’ordine” hanno sparato ad altezza d’uomo, riferiscono i testimoni, contro i manifestanti scesi in piazza per chiedere le dimissioni di Dina Boluarte – la numero due di Castillo designata presidente dopo l’arresto di quest’ultimo – lo scioglimento del parlamento e l’indizione di elezioni anticipate.
Inizialmente, la prima presidente donna del Perù aveva promesso di indire nuove elezioni a dicembre del 2023, ma il Congresso ha respinto la proposta posticipando il voto, forse, al 2024.
Da quel momento le proteste sono riprese con forza – tutti i sondaggi indicano che la stragrande maggioranza della popolazione vuole tornare alle urne il prima possibile – e la repressione sembra farsi sempre più dura. D’altronde, per il governo di Lima, le manifestazioni costituiscono la prosecuzione del «colpo di stato» maldestramente tentato dal leader della sinistra per evitare la destituzione.
La parabola dell’ex maestro di sinistra
Il 7 dicembre Castillo ordinò lo scioglimento del Congresso e la formazione di un “governo di emergenza”, con l’idea di chiamare il paese a elezioni anticipate e di forzare una riforma radicale del potere giudiziario. Quest’ultimo, controllato dagli ambienti conservatori e reazionari, ha sistematicamente boicottato la presidenza provocando non pochi problemi ad una compagine comunque raffazzonata. Anche il tentativo di Castillo di sottrarsi all’ennesimo tentativo di destituzione da parte dell’opposizione parlamentare è apparso improvvisato e privo dei necessari sostegni. Dopo la rinuncia e la condanna dei suoi stessi ministri, Castillo si è diretto all’ambasciata messicana a Lima per chiedere asilo, ma è stato arrestato dalla sua stessa scorta.
La vittoria del maestro rurale di origini indigene a capo di una coalizione di sinistra nel 2021 aveva bloccato l’elezione di Keiko Fujimori – figlia dell’ex dittatore di origini giapponesi Alberto Fujimori, tuttora in carcere per crimini contro l’umanità – e aveva destato grandi aspettative tra i movimenti indigeni e popolari da sempre ai margini della vita politica del paese. La sua promessa di una riforma radicale del sistema politico ed economico del Perù gli aveva garantito la vittoria, per quanto di misura, sui candidati della destra, ma il suo mandato si è rivelato un fallimento, sia per le contraddizioni e le divisioni interne alla sua compagine sia per l’impossibilità di governare un paese dominato da una élite allergica ad ogni cambiamento. Non solo i media (per lo più di proprietà del gruppo privato El Comercio) e i massimi organi giudiziari hanno mosso contro Castillo un’implacabile guerra, ma pezzi consistenti della sua stessa maggioranza parlamentare hanno portato avanti un sistematico ostruzionismo – compreso il suo partito, “Perù Libre”, che lo ha addirittura espulso – impedendo alla presidenza di varare almeno alcune delle riforme sociali ed economiche promesse. L’incompetenza e la discutibilità morale del personale politico scelto da Castillo per governare il paese e le trappole disseminate dalla destra hanno fatto il resto, provocando una crisi di governo permanente e le dimissioni di decine tra premier e ministri nel giro di poco più di un anno.
La piazza vuole l’Assemblea Costituente
Appare indicativo il fatto che a guidare la svolta reazionaria e la repressione sia ora, dopo l’arresto di Castillo, la sua ex vice, Dina Boluarte, un’avvocatessa 60enne con scarsa esperienza politica. Eletta nelle fila del partito di sinistra “Perù Libre”,ora sembra offrirsi all’oligarchia peruviana come il baluardo della restaurazione politica.
Ma, dopo la relativa pausa in occasione delle feste di fine anno, le proteste popolari sono riprese con vigore il 4 gennaio, con l’indizione di uno sciopero generale ad oltranza che sta paralizzando soprattutto il sud del paese dove più forte è la presenza delle popolazioni aymara e dove più massiccio era stato il voto per Castillo. Blocchi stradali, occupazioni e scontri sono segnalati in diversi dipartimenti, soprattutto a Puno, Arequipa e Tacna. Particolarmente forti sono stati gli scontri registrati ieri tra indigeni che tentavano di occupare l’aeroporto di Cuzco e la polizia. Se non basterà, avvisano i manifestanti, verrà organizzata una grande marcia su Lima per assediare il governo e le sedi istituzionali.
Le organizzazioni popolari e parte delle sinistre continuano a chiedere la rinuncia di Boluarte e l’elezione di un’Assemblea Costituente che riscriva una Magna Charta che blinda il neoliberismo. Una richiesta fatta propria dal governatore del dipartimento di Puno, Richard Hancco, che dopo la strage di lunedì ha indetto tre giorni di lutto. Da parte sua il primo ministro Alberto Otárola ha imposto nel dipartimento andino tre giorni di coprifuoco notturno.
La strage di Juliaca
Nel frattempo però la conta dei morti e dei feriti aumenta, mentre ogni giorno si contano centinaia di arresti. La vittima più giovane è un’adolescente di soli 17 anni, Yamileth Aroquipa, studentessa di psicologia e volontaria in un rifugio per animali abbandonati. È stata uccisa a Juliaca, città nel sudest alla frontiera con la Bolivia. Tra le vittime ci sono Marco Antonio Samillan, un neurochirurgo colpito alla testa mentre tentava di soccorrere un ferito; Gabriel Omar López, 35 anni, venditore ambulante di gelati; Roger Cayo, 22 anni, studente di meccanica.
Contro i circa 9000 manifestanti disarmati che lunedì sera assediavano il locale aeroporto, raccontano i media locali, la Polizia Nazionale ha usato addirittura dei proiettili esplosivi. Il dottor Enrique Sotomayor, responsabile della terapia intensiva dell’ospedale Carlos Monge Medrano di Juliaca, ha riferito ai media locali che quasi tutti i cadaveri e i feriti arrivati nel nosocomio erano stati colpiti da proiettili di armi da fuoco abbastanza potenti da danneggiare gravemente gli organi interni.
Inferociti dalla caccia all’uomo seguita alla strage, alcuni manifestanti hanno incendiato una volante della polizia, causando la morte di un agente.
Presidente e governo indagati per strage
Dopo le proteste e le denunce contro la brutalità della polizia e dell’esercito, mobilitato grazie allo stato d’emergenza proclamato dalle autorità, la Procura Generale di Lima ha aperto un’indagine per “genocidio” (strage), omicidio e lesioni gravi contro la presidente, il premier Otárola – che ha appena ottenuto la fiducia con 73 voti a favore e 43 contro – e i ministri degli Interni Victor Rojas e della Difesa Jorge Chavez. L’indagine coinvolge anche il primo premier incaricato da Boluarte, Pedro Angulo e l’ex ministro dell’Interno, Cesar Cervantes, e alcuni alti funzionari di polizia, fra cui il capo della regione di Ayacucho, Antero Mejia Escajadillo ed il comandante della seconda brigata di fanteria militare di Ayacucho, Jesus Vera Ipenza.
Gli indagati si difendono accusando Castillo, condannato a 18 mesi di carcere preventivo per cospirazione e ribellione, di manipolare i manifestanti, additati come terroristi e delinquenti. Boluarte, in particolare, ha denunciato la “sinistra radicale” come istigatrice alla sovversione violenta dell’ordine costituzionale. La stampa di destra e alcuni esponenti del governo hanno anche puntato il dito contro il narcotraffico e contro l’ex presidente socialista boliviano Evo Morales, al quale lunedì scorso Lima ha vietato l’ingresso nel paese e che ora viene accusato di essere tra gli organizzatori occulti delle proteste.
Castillo accusa Washington
Dal carcere l’ex presidente Castillo accusa il governo di «massacrare la popolazione indifesa», attribuendo la repressione agli Stati Uniti, interessati a riconquistare il controllo delle risorse minerarie del paese. Scrive l’ex maestro in una lettera scritta a mano: «La visita dell’ambasciatrice degli Stati Uniti (Lisa Kenna) al Palazzo non è gratis, e neanche a favore del Paese. È stata compiuta per dare l’ordine di portare l’esercito nelle strade e massacrare il mio popolo indifeso». Poco dopo la pubblicazione del messaggio dell’ex presidente, l’Ambasciata di Washington a Lima ha pubblicato una breve nota nella quale ribadiva il «rispetto» della Casa Bianca per le «istituzioni democratiche del Perù» rilanciando «un appello alla pace e all’unità».
Sulla situazione in Perù è intervenuto anche il primo presidente di sinistra della Colombia. «Ciò che sta avvenendo in Perù è un massacro contro la popolazione. Una soluzione politica e pacifica è essenziale. Fermare la morte e sedersi a parlare. Il sistema interamericano dei diritti umani deve agire con urgenza» ha scritto Gustavo Petro in un tweet.
Intanto, la concessione dell’asilo politico da parte del Messico a Lilia Paredes, moglie di Castillo, e i suoi due figli Arnold e Alondra, ha reso tesi i rapporti tra Lima e Città del Messico. Il governo peruviano ha dichiarato persona non grata l’ambasciatore messicano Pablo Monroy a causa delle «continue ingerenze della missione diplomatica negli affari interni del paese». – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.