di Joost Hiltermann  – International Crisis Group –

Traduzione di Valeria Cagnazzo

Pagine Esteri, 19 marzo 2023 – Alimentata da un gruppo di ideologi noti come i “neoconservatori”, l’invasione statunitense dell’Iraq del 2003 fu la prima mossa dell’amministrazione Bush per riprogettare il Medio Oriente. Benché fosse giustificata come la risposta al supposto coinvolgimento del leader iracheno Saddam Hussein nell’attacco agli Stati Uniti dell’11 settembre e alla sua presunta capacità di produrre armi biologiche o altre armi di distruzione di massa, le sue finalità poi documentate erano più ampie. Gli “architetti della guerra” desideravano farne una regione più amichevole nei confronti  degli interessi statunitensi, isolare l’Iran, e, facendo fuori uno dei membri del fronte arabo “del rifiuto”, rifilare una “Pax israeliana” ai Palestinesi – che avevano cercato un’altra volta, con una seconda Intifada iniziata nel 2000, di ribellarsi alla legge militare israeliana. C’erano anche altri motivi in gioco: dimostrare il potere statunitense dopo l’attacco dell’11 settembre esercitando la sua forza bruta e, secondo alcuni neoconservatori, provare che una missione di “democraticizzazione” poteva contrastare il fascino dei movimenti islamisti nella regione.

Se l’impresa iniziò con tracotanza e ambizione, finì tra le lacrime. Gli obiettivi irreali dei suoi fautori combinati con la legge delle conseguenze indesiderate finirono per mettere in luce la loro ignoranza e la loro arroganza. Piuttosto che far germogliare la democrazia in Medio Oriente, l’invasione provocò un vuoto di sicurezza nel cuore della regione. Scatenò un Iran intenzionato a vendicarsi del sostegno di Washington allo Shah e alla “guerra imposta” dal regime di Hussein, lanciata nel 1980 per spegnere la Rivoluzione Islamica. Infiammò l’ascesa del dibattito settario, che contribuì a trasformare la polarizzazione politica irachena in tre anni di brutale guerra civile. Ridusse in brandelli il mito della potenza militare degli Stati Uniti e la sua reputazione, dopo la Guerra Fredda, di unica superpotenza, la sola capace di imporre la sua volontà ben oltre le proprie coste. Generò una nuova ondata di gruppi jihadisti, culminata nella nascita dello Stato Islamico di Iraq e Siria, l’Isis, che non solo sfruttò il caos che si era creato sulla scia dell’invasione americana ma successivamente lo rese ancora più drammatico. L’offensiva dell’Isis nel 2014 ha riportato le truppe statunitensi in Iraq anni dopo che Washington aveva cercato di lavarsi le mani dei disordini che aveva creato nella regione. Ultimo ma sicuramente non meno importante, l’invasione del 2003 si concluse con la beffa delle due motivazioni che Bush aveva addotto per giustificarla pubblicamente: gli investigatori non trovarono né le armi di distruzione di massa in Iraq né le prove di una connessione tra il regime di Saddam Hussein e gli attacchi dell’11 settembre.

Anatomia di un fallimento

L’Iraq sotto il regime dell’apparato brutale del partito baathista di Saddam Hussein e le sue agenzie di sicurezza non era un posto piacevole, eppure la gioia che la sua caduta provocò in molti Iracheni – curdi e sciiti in particolare – svanì ben presto. L’ambivalenza della situazione diventò palese molto presto dopo la “liberazione” del 2003, quando durante una visita a Baghdad mi venne chiesto da alcuni speranzosi abitanti, che avevano bene accolto l’arrivo delle truppe statunitensi, perché i soldati non avessero ripristinato l’ordine pubblico, lasciando, invece, che le bande saccheggiassero i palazzi governativi e rubassero beni inestimabili dai musei e dalla libreria nazionale. Questi Iracheni trovavano incomprensibile che l’esercito degli Stati Uniti potesse permettere un tale caos; lo interpretavano come un segnale di cattive intenzioni – un tentativo di estendere i domini dell’impero mediante la distruzione. Il parere del Segretario americano alla Difesa Donald Rumsfeld che “la libertà porta disordine” non li tranquillizzava. Erano piuttosto infuriati dai frequenti riferimenti dei media occidentali alla “caduta di Baghdad”, che inevitabilmente portava alla memoria il sacco della città nel 1258 da parte dei Mongoli, quando questa era il centro dell’impero degli Abbassidi e del fermento culturale dell’epoca, una cosa ben diversa rispetto alla “caduta del regime”. I loro sentimenti anti-invasione di stampo nazionalista arabo erano molto diffusi in Medio Oriente, dove il regime deposto aveva goduto di un supporto popolare significativo per la sua resistenza all’agenda statunitense. (Molti erano inconsapevoli o chiudevano gli occhi davanti a quanto avveniva nelle prigioni di Saddam Hussein).

Vent’anni dopo, è chiaro come l’invasione fu un fallimento terribile sotto molti punti di vista, non solo per la mancanza di pianificazione dell’impresa ma anche per la serie di conseguenti disastri che la segnarono. Gli Stati Uniti, quasi dal “partenza-via”, persero i cuori e le menti di molte delle persone che erano venuti a liberare. Queste ultime finirono per appoggiare, con vari gradi di entusiasmo, le azioni di una piccola minoranza che gravitava intorno a forme di resistenza molto più violenta verso quella che, giustamente, definivano una “occupazione” – uno status confermato dalla Croce Rossa Internazionale, garante delle Convenzioni di Ginevra del 1949, e dagli stessi Stati Uniti. Qualsiasi protezione internazionale la presenza americana potesse offrire ai civili iracheni, essa determinò anche un livello di dominazione straniera che finì per andare male alla maggior parte di loro.

Nel giro di poche settimane, molti errori furono commessi. Iniziarono con l’instaurazione di un proconsole americano, L. Paul “Jerry” Bremer, dotato di ampi poteri e limitata conoscenza del Paese. Poi venne lo smantellamento dell’esercito da parte sua, anche se di tutta la miriade di apparati di sicurezza iracheni, l’esercito era quello che aveva mostrato meno di tutti lealtà al vecchio regime e aveva un corpo di ufficiali che avrebbe potuto essere riformato per offrire sicurezza a tutto il Paese.

Un altro sbaglio madornale fu la purga degli ex membri del partito baathista dallo Stato, una mossa spinta dal desiderio di vendetta dei partiti sciiti, che cercavano di ottenere il potere. Per come la portarono avanti gli Stati Uniti, la de-baathificazione fu indiscriminata, con la rimozione di tutti gli ufficiali degli alti livelli del partito; ma finì per essere selettiva, visto che i partiti islamisti successivamente perdonarono molti dei baathisti sciiti (tranne alcuni che erano stati gli scagnozzi del regime) e diedero loro alcune posizioni di potere nel nuovo ordine, ma non i baathisti sunniti.

A coronare il tutto, la creazione di una struttura di governo sul modello del sistema della muhasasa libanese, con la rappresentazione politica delle comunità etnico-confessionali sulla base della loro presunta proporzione demografica. Una tale risoluzione potrebbe incoraggiare una politica guidata dal consenso popolare, ma contrasta una governance effettiva: chiunque ha una poltrona, ma nessuno può prendere decisioni. Questo genera ogni forma di corruzione, poiché i politici elargiscono protezione ai loro elettori, e le loro controparti non possono opporsi, per paura che crolli tutto il sistema. Insieme al fallimento nel fermare il saccheggio del Paese, queste azioni furono i peccati originali dell’occupazione.

Un racconto di due temi

I due temi principali degli ultimi due decenni, comunque, sono stati: primo, come gli Stati Uniti, di concerto con gli esuli di ritorno, definirono sempre l’Iraq come comprendente tre comunità principali – i curdi, gli arabi sciiti e gli arabi sunniti – e relegarono quest’ultimo gruppo, in un unico conglomerato indifferenziato, ad essere quello degli sconfitti ufficiali. L’Iraq divenne un caso emblematico di come l’esclusione – in questo caso dei sunniti privati di potere sotto quello che emerse come il dominio sciita islamista – generi rancore, che accumulandosi può provocare violenza.

Con i Sunniti allontanati dal potere, nel disordine prosperò una ribellione guidata dal movimento di Al-Qaeda in Iraq (AQI), che gli Stati Uniti non furono in grado di contenere e, probabilmente, poco interessati a fermare. Non volendo restare impantanata in quella regione un giorno di più, Washington aveva portato buona parte delle sue truppe fuori dal Paese entro la fine del 2011, per tornarci appena tre anni più tardi quando l’Isis (che derivava dall’AQI), conquistò territori in Siria e in Iraq. Oggi, l’Isis può essere stato soppresso con mezzi militari, ma si continua a covare rancore, alimentato da una governance negligente, scarsa rappresentazione politica e scarsa protezione. Gli abitanti di Falluja, Ramadi, di quello che resta di Mosul e una miriade di altre piccole città a ovest e nord-ovest sono stati, in effetti, incolpati di tutte le depredazioni del vecchio regime. I membri rimanenti dell’Isis, intanto, nascondendosi in terreni accidentati, portano avanti operazioni locali aspettando il giorno in cui il potere di Baghdad si risveglierà di nuovo.

Il secondo leitmotif è come l’occupazione statunitense abbia permesso all’Iran di diffondere la sua influenza in Iraq – attraverso leader politici simpatizzanti e milizie per procura – fino ai confini con l’Arabia Saudita, la Giordania e la Siria, suggerendo una vittoria tardiva dell’Iran nella Guerra del 1980-88. Il destino dell’Iran in quel conflitto gli offre oggi il pretesto per usare l’Iraq come profondità strategica davanti a un mondo arabo ostile, e gli regala anche l’occasione di un regolamento di conti. Teheran aveva avvertito che i limiti al suo potere sulla regione erano già stati allentati dopo che l’invasione statunitense dell’ottobre 2001 in Afghanistan aveva allontanato I talebani, un altro dei suoi rivali.

L’ascesa dell’Iran in Iraq e in maniera più estesa in tutto il Medio Oriente è spesso attribuita a un’aspirazione all’egemonia regionale. Potrebbe effettivamente nutrire simili ambizioni. E si potrebbe a ragione replicare che l’Iran ha provato una spiccata capacità di sfruttare le condizioni favorevoli che gli si sono presentate. Ha aiutato Hezbollah a insediarsi in Libano in risposta all’invasione israeliana del Paese nel 1982, cosa che non danneggiò soltanto i rifugiati palestinesi ma anche la popolazione in maggioranza sciita. Ha esteso la sua influenza in Iraq grazie all’invasione statunitense. E’ venuto in soccorso dell’alleato siriano Bashar al-Assad quando il suo regime ha vacillato davanti alle proteste popolari e all’insurrezione armata nel 2011. Infine, ha dato man forte ai ribelli houthi in Yemen in seguito al fallimentare ma duraturo intervento militare dei sauditi nel 2015. In Iraq, Libano e Yemen, l’Iran ha beneficiato anche della presenza di gruppi islamisti sciiti desiderosi di approdare al potere nazionale grazie al suo aiuto.

Per contenere l’Iran sarà necessario farlo confrontare con una serie di condizioni locali “sfavorevoli”. La ricostruzione degli stati arabi basata sulla legittimazione popolare, incluso l’Iraq, potrebbe essere il cambiamento più  significativo in questo senso. Nel 2011, otto anni dopo l’invasione dell’Iraq, Tunisini, Egiziani, Libanesi, Siriani, Yemeniti, Bahreiniti e altri hanno mostrato come può essere la restaurazione dell’ordine politico regionale quando viene realizzata dal basso. I regimi minacciati, tuttavia, hanno represso con la forza i manifestanti nelle piazze, mentre i poteri regionali come l’Iran, i Paesi del Golfo Arabo e la Turchia hanno stravolto i loro sforzi, specialmente in Siria. Questi cambiamenti hanno reso gli esiti di quella stagione di speranza nella regione tanto tragici quanto quelli vissuti dagli Iracheni dopo il 2003, se non di più. Eppure,  dei modi per raggiungere una governance più promettente che non preveda un intervento esterno né un’insurrezione interna si possono immaginare, e l’Iraq, che ha mantenuto una certa coerenza nazionale a vent’anni dall’invasione, può essere capace di proporre delle idee realizzabili, perché almeno ha goduto di qualche sviluppo positivo anche come risultato dell’invasione degli Stati Uniti.

Ancora qui

Al contrario delle previsioni di alcuni osservatori (e, in qualche caso, anche dei loro desideri), l’invasione non ha comportato la fine dell’Iraq. I confini si sono dimostrati stabili e il nazionalismo iracheno si è ripreso nonostante un’iniziale esplosione di sentimenti anti-nazionali. (I curdi sono riusciti a ottenere una maggiore autonomia, ma non la completa indipendenza alla quale ambiscono da tempo.) La società irachena è arrivata a godere di una modica libertà. Il Paese ha un sistema multipartitico per la prima volta nella sua storia, elezioni parlamentari ripetute e relativamente trasparenti, e una stampa libera (ma facilmente soggetta a intimidazioni). Nell’attuale sistema politico iracheno, nessun leader autoritario può agire senza restrizioni. Ma proprio la debolezza del centro, guidato da una classe politica corrotta incapace di dare anche solo una parvenza di buon governo, se da una parte ha reso possibili queste importanti caratteristiche ha anche permesso l’ascesa di milizie predatorie e di intrusioni ripetute dei vicini Iran e Turchia.

In che modo questi risultati equivalgano a un vantaggio per gli Stati Uniti, nonostante la grande spesa in termini di sangue e denaro, nessuno sa dirlo, con le uniche eccezioni ben immaginabili dell’industria delle armi e di altri interessi corporativi.  C’è chi sosteneva già prima della guerra che la spedizione proposta dall’amministrazione Bush fosse mal concepita, basata sulla cattive informazioni fornite da un piccolo gruppo di esuli iracheni, con le loro agende molto ristrette. In quanto tale, non avrebbe mai potuto avere successo, anche se la forza occupante fosse stata meno disastrosamente incompetente di quanto si sia nei fatti rivelata.