di Caterina Bandini*

(la foto in evidenza è della Conferenza Kairós Palestina a Betlemme)

Pagine Esteri, 19 aprile 2023 – «L’occupazione è un peccato contro Dio»: questo il postulato del documento Kairós Palestina: un momento di verità. Una parole di fede, speranza e amore dal cuore delle sofferenze dei palestinesi, pubblicato in arabo l’11 dicembre 2009 dal Consiglio ecumenico delle Chiese di Terra santa[1]. Ispirato al Kairós sudafricano, un documento pubblicato nel 1985 da una maggioranza di preti neri per denunciare il regime di apartheid, Kairós Palestina rappresenta il culmine di un lungo percorso di sensibilizzazione e politicizzazione delle Chiese palestinesi.

I palestinesi cristiani che vivono in Israele-Palestina sono circa 171 000 su una popolazione palestinese totale di più di 7 milioni di persone. La maggior parte si trova all’interno dello Stato d’Israele (120 000), 40 000 vivono nella Cisgiordania occupata, 10 000 a Gerusalemme e meno di un migliaio nella Striscia di Gaza. La minoranza cristiana ha una composizione eterogenea: i fedeli appartengono a ben 13 Chiese diverse, che vengono divise localmente tra «orientali» (Chiesa greco-ortodossa, armena, siriaca, ecc.) e «occidentali» (Chiesa cattolica romana, anglicana, luterana, ecc.). La maggioranza dei cristiani appartiene alla Chiesa greco-ortodossa (detta anche arabo-ortodossa o semplicemente ortodossa), la quale detiene il controllo del maggior numero di Luoghi santi; la seconda comunità più numerosa è quella cattolica di rito latino.

Presepi di legno con il Muro costruito da Israele nella Cisgiordania occupata (foto di Caterina Bandini)

Le Chiese palestinesi sono state o sono tutt’ora al centro di conflitti tra l’alto clero, appoggiato dai poteri stranieri e dalla loro presenza missionaria, ed il laicato palestinese. La Chiesa greco-ortodossa in particolare, che possiede un importante patrimonio immobiliare, ha venduto terreni e immobili dapprima al governo britannico, poi ai coloni sionisti e alle autorità israeliane. Inoltre, la dimensione transnazionale delle Chiese di Terra santa ha contribuito ad alimentare in seno alla società palestinese la diffidenza nei confronti dei cristiani, sospettati di collaborare con l’occidente colonizzatore. Ciò spiega, in parte, la preponderanza di attivisti cristiani tanto nel movimento nazionalista degli anni ‘30 quanto nel movimento di liberazione nazionale che si sviluppa dopo la Nakba. L’importanza di Kairós Palestina è dovuta al fatto che per la prima volta non sono i fedeli ad impegnarsi politicamente contro l’occupazione israeliana, bensì gli alti livelli della gerarchia ecclesiale.

La pubblicazione del documento rappresenta l’apice di un movimento nato in seno alla comunità protestante che coinvolge clero e laicato sin dalla prima Intifada (1987-1993) (Kuruvilla, 2013). Ispirandosi alla teologia contestuale, alla teologia della liberazione sud-americana e alla critica post-coloniale della Bibbia, il reverendo anglicano Naim Stifan Ateek, all’epoca pastore della Cattedrale di San Giorgio a Gerusalemme, pubblica nel 1989 Justice, and Only Justice: A Palestinian Theology of Liberation (Ateek, 1989), considerato il testo fondatore della teologia della liberazione palestinese. Nel libro, Ateek spiega che la lettura dell’Antico Testamento pone delle difficoltà specifiche ai palestinesi cristiani. I concetti di «popolo eletto» e «terra promessa» o ancora il racconto mitologico dell’Esodo assumono un significato politico nel contesto israelo-palestinese, dove l’idea di una continuità perfetta tra il popolo ebraico nella Bibbia e lo Stato d’Israele ha offerto una legittimità storico-religiosa all’impresa sionista. Secondo Ateek, se la Bibbia è stata strumentalizzata fino a diventare un elemento importante nel conflitto, può anche diventare un elemento della soluzione. I palestinesi cristiani devono quindi elaborare una lettura palestinese dell’Antico Testamento. Una comprensione universalista della natura di Dio sul piano teologico non significa che tutte le parti della Bibbia abbiano lo stesso valore per i cristiani: i libri dei Profeti, ad esempio, dove Dio fa prova di compassione nei confronti di altri popoli, rappresentano un’evoluzione rispetto ai libri dell’Esodo e di Giosuè caratterizzati dalla tradizione nazionalista e militarista degli zeloti.

Altri autori hanno partecipato allo sforzo di decolonizzazione dell’Antico Testamento, come il reverendo luterano Mitri Raheb (Raheb, 1995). Questo movimento teologico ed intellettuale è andato di pari passo con un’opera di arabizzazione e palestinizzazione delle Chiese che, fino ad allora, solo la Chiesa melkita aveva compiuto. Nella seconda metà del XX secolo, l’arabo sostituisce le lingue straniere nella liturgia, i membri del clero provengono sempre di più dalla popolazione locale e le istituzioni cristiane cominciano a rivendicare esplicitamente la loro appartenenza alla nazione palestinese. Anche la Chiesa cattolica romana prende parte a questo processo e s’impone come uno degli attori principali del movimento di teologia della liberazione contribuendo alla sua diffusione fuori dagli ambienti protestanti. La nomina, nel 1987, di Michel Sabbah a capo del Patriarcato latino di Gerusalemme rappresenta una tappa importante: primo (e finora unico) patriarca palestinese nella storia dell’istituzione, durante il suo mandato (1987-2008) Sabbah ha saputo coinvolgere la gerarchia cattolica romana nelle questioni politiche locali, prendendo posizione contro l’occupazione e per la pace, e incoraggiando l’impegno politico dei cristiani.

I teologi-attivisti si focalizzano sulla comunità cristiana internazionale. Uno degli obiettivi principali del movimento consiste a contrastare la diffusione del sionismo cristiano, una corrente di pensiero che appoggia l’esistenza dello Stato d’Israele come Stato esclusivamente ebraico sulla base di una lettura letterale dell’Antico Testamento (Nederveen-Pieterse, 1991). Il sionismo cristiano si è progressivamente affermato nelle comunità evangeliche statunitensi e sud-americane ed alcuni esponenti di questa corrente hanno un legame molto stretto col potere politico israeliano, il che contribuisce a marginalizzare il cristianesimo palestinese sulla scena internazionale. Dalla fine degli anni ‘80 ad oggi, varie organizzazioni palestinesi cristiane della società civile si sono impegnate nella creazione di circuiti di turismo e pellegrinaggio alternativi (come i cosiddetti pellegrinaggi «delle pietre vive») volti a far conoscere la realtà dell’occupazione ai cristiani provenienti da tutto il mondo (Feldman, 2011).

Un poster con la giornalista Shireen Abu Akleh, una palestinese cristiana, uccisa dall’esercito israeliano a Jenin

Ed è proprio quest’interesse pronunciato nei confronti della comunità internazionale, a discapito delle comunità cristiane locali, che viene oggi criticato da una nuova generazione di teologi palestinesi. Essi considerano che l’opera dei padri fondatori Naim Ateek et Mitri Raheb e di tutti coloro che si sono ispirati al loro modello presenta una dimensione coloniale inerente alla struttura, la costruzione e gli obiettivi che gli autori si sono posti (Munayer e Munayer, 2022). Volendosi opporre al sionismo cristiano, Ateek e Raheb si sono rivolti ai cristiani occidentali e non ai cristiani palestinesi; hanno preso spunto quasi esclusivamente da teologi maschi, bianchi e occidentali; non hanno adottato un approccio intersezionale, esaminando di fatto un’unica dimensione dell’oppressione palestinese (da parte dell’occidente e dello Stato d’Israele) e tralasciandone altre (sessismo, classismo, islamofobia).

La nuova generazione propone l’elaborazione di una «teologia della liberazione civica» in linea col pensiero di Edward Said, uno dei primi a indicare la necessità di una lettura palestinese della Bibbia (Masalha e Isherwood, 2014). Non si tratta più soltanto di reinterpretare le Scritture, ma di decolonizzare la mente e la pratica religiosa dei palestinesi cristiani. Dall’advocacy sulla scena internazionale all’empowerement delle comunità locali, l’obiettivo principale di questa nuova teologia più contestuale e meno cristiana è il dialogo all’interno della società palestinese, in particolare fra cristiani e musulmani. Teologi e attivisti pubblicano più in arabo che in inglese[2], s’ispirano all’iconografia ortodossa più che a quella protestante o latina e prendono a modello figure cristiane della resistenza palestinese, come la giornalista Shireen Abu Aqleh uccisa nel maggio 2022 dall’esercito israeliano. Prodotto di questa rinascita teologica, una rivista accademica palestinese è stata recentemente fondata con l’obiettivo di creare uno spazio di discussione sul tema del cristianesimo palestinese in arabo e inglese. Il comitato editoriale del Journal of Palestinian Christianity è composto dal reverendo luterano Munther Isaac e due giovani teologi, Yousef AlKhoury e John Munayer, tutti e tre affiliati all’università evangelica palestinese di Betlemme, il Bethlehm Bible College[3]. Pagine Esteri

NOTE

[1]     Per la versione italiana del documento: https://www.kairospalestine.ps/sites/default/files/Italian.pdf

[2]     Si veda la pagina in arabo del sito Come and See – The Christian Website from Nazareth: http://www.comeandsee.com/ar/

[3]     La presentazione della rivista è disponibile qui: https://files.constantcontact.com/6d0f7be9501/91f8ea7f-cae6-4937-b670-54be9ce84efe.pdf

Letture consigliate:

Ateek, Naim Stifan (1989) Justice, and Only Justice: A Palestinian Theology of Liberation. Maryknoll, Orbis Books.

Feldman, Jackie (2011) “Abraham the Settler, Jesus the Refugee: Contemporary Conflict and Christianity on the Road to Bethlehem”, History & Memory, 23 (1): 62-95.

Kuruvilla, Samuel Jacob (2013) Radical Christianity in Palestine and Israel: Liberation and Theology in the Middle East. Londra e New York, IB Tauris.

Masalha, Nur, Isherwood, Lisa (a cura di) (2014) Theologies of Liberation in Palestine-Israel. Indigenous, Contextual, and Postcolonial Perspectives. Eugene, Pickwick Publications.

Munayer John S., Munayer, Samuel S. (2022) “Decolonising Palestinian Liberation Theology: New Methods, Sources and Voices”, Studies in World Christianity, 28 (3): 287-310.

Nederveen-Pieterse, Jan (1991) “The History of a Metaphor: Christian Zionism and the Politics of Apocalypse”, Archives de sciences sociales des religions, 75: 75-103.

Raheb, Mitri (1995) I am a Palestinian Christian. Minneapolis, Augsburg Fortress Press.

*Caterina Bandini è sociologa e attualmente ricercatrice presso il Centre National de la Recherche Scientifique (CNRS) e l’Università di Nantes nell’ambito di un progetto collettivo sulla sinistra “radicale” israeliana. Ha conseguito il dottorato di ricerca presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales (EHESS) di Parigi con un’etnografia dei movimenti religiosi per la pace e i diritti umani in Israele-Palestina, dove ha condotto numerosi periodi di ricerca sul campo dal 2015 ad oggi. Si occupa principalmente di attivismo e movimenti sociali, relazione fra politica e religione, risoluzione dei conflitti, studi post-coloniali e settler colonial studies. È autrice dell’articolo “ʻLa terre ne nous appartient pas, nous lui appartenonsʼ. Usages militants de la théologie et recompositions identitaires en Israël-Palestine”, Critique Internationale (pubblicazione prevista per fine 2023) e curatrice (con Marion Lecoquierre) del volume tematico “Le colonialisme de peuplement: applications empiriques et approches critiques”, Revue Internationale de Politique Comparée (pubblicazione prevista per fine 2023). Sul tema del cristianesimo palestinese ha pubblicato: “Catholiques français et chrétiens palestiniens: pour une sociologie relationnelle de la solidarité”, Les Cahiers d’EMAM, 32 (2020).