di Micol Meghnagi –
Pagine Esteri, 6 giugno 2023. Ho conosciuto Issa Amro anni fa, durante un tour coordinato dall’organizzazione israeliana Breaking the Silence, nella città di Hebron (Al-Khalil). Basta qualche minuto ad Hebron per realizzare il significato profondo che vi è dietro la parola “occupazione”. La città di Hebron è stata divisa in modo tale che alcuni attraversano una città vuota, fantasma, mentre altri una città colorata e vivace, delimitata da recinzioni, muri e checkpoint oltre i quali inizia il vuoto. Scontrarsi con il vuoto vuol dire comprendere alcuni degli effetti dell’occupazione militare israeliana. Ma guardarlo attraverso gli occhi dei palestinesi, assume tutt’altro significato.
Issa Amro è uno storico attivista palestinese della città di Hebron. È il fondatore del movimento nonviolento Youth Against Settlement (Giovani contro gli insediamenti) che dal 2006 organizza campagne e manifestazioni di protesta contro la confisca delle terre e la costruzione di insediamenti illegali nella Cisgiordania occupata militarmente dall’esercito israeliano. Issa lavora con numerose organizzazioni per i diritti umani palestinesi, israeliane e internazionali, tra cui l’Arab Non-Violence Network, B’tselem e l’International Solidarity Movement. Negli anni ha subito e documentato innumerevoli aggressioni, minacce di morte e arresti arbitrari per mano di soldati e coloni israeliani. In questi giorni si trova in Italia per una lecture presso l’Università di Padova e degli incontri alla Camera dei deputati, organizzati dall’associazione AssoPacePalestina.
La spettacolarizzazione della violenza continua a dominare la narrazione mediatica occidentale di quello che accade in Israele e in Palestina. Come fanno gli attivisti palestinesi a prendere le distanze da una narrativa escludente e a riappropriarsi della propria soggettività?
Nel 2006 abbiamo dato vita al progetto Youth Against Settlements (YAS). L’obiettivo era quello di incoraggiare i giovani, le donne e le famiglie palestinesi a raccontare le proprie storie e a denunciare l’occupazione israeliana attraverso l’uso strategico di dispositivi audio-visivi, come le telecamere. Documentiamo le violazioni dei diritti umani, ma anche i nostri sogni, le nostre sofferenze e i nostri desideri. In questo senso, i social media hanno contribuito a diversificare il tipo di storie che ricevono attenzione. La nostra è una resistenza nonviolenta e pacifica che viene costantemente criminalizzata. Sei colpevole fino a prova contraria. Ma arrendersi non è un’opzione. Soltanto nel 2022 sono stato detenuto più di dieci volte delle forze di occupazione israeliane.
In che modo queste iniziative si intrecciano alla storia della lotta palestinese e alla resistenza nonviolenta nel territorio?
Mi ispiro alle iniziative di disobbedienza civile nonviolenta palestinese degli anni Ottanta e alle persone della mia comunità che vi hanno preso parte: vicini di casa, persone comuni e donne leader che rimangono sconosciute ai mass media. Il movimento di disobbedienza civile a Beit Sahour ne è un esempio… Le famiglie locali, cristiane e musulmane, bruciarono i loro documenti e si rifiutarono di comprare il latto israeliano, allevando loro stesse delle mucche. La resistenza nonviolenta costringe le vostre istituzioni ad essere attive e forti di fronte all’occupazione. Con YAS, registriamo quotidianamente le violazioni dei diritti umani e cerchiamo di opporci in sede legale all’amministrazione israeliana. Portiamo avanti campagne internazionali, come quella per riaprire Shuhada Street. Luisa Morgantini, già vicepresidente del Parlamento Europeo e Presidente di AssoPacePalestina, è stata una delle principali voci del progetto. Recuperiamo gli spazi pubblici inutilizzati, come la nostra stessa sede che in precedenza era un avamposto militare israeliano, poi abbandonato nel 2006. I coloni minacciano noi e le famiglie che collaborano con YAS. Ad Hebron, se sei palestinese, non hai il diritto di muoverti liberamente tra le strade della tua città. Ci viene negato anche il diritto di espressione e di opinione. Lavoriamo con centinaia di israeliani contro l’occupazione, ebrei della diaspora e internazionali. Organizziamo scioperi, manifestazioni e tour per la città di Hebron per mostrare il vero volto dell’occupazione. Ovviamente, neppure la solidarietà viene risparmiata. Insieme a Adam Broomberg, attivista ebreo sudafricano che vive a Berlino, abbiamo lanciato un progetto per portare artisti provenienti da ogni parte del mondo nella città occupata di Hebron. Sono dell’idea che ebrei, cristiani, musulmani (ma non solo!) hanno il diritto vivere insieme in questa terra…Ma non in una dimensione dove un gruppo etnico esercita il proprio dominio su un altro. Ogni anno organizzo nella mia casa il “Freedom Seder” (n.d.r. il pasto rituale della Pasqua ebraica) con centinaia di attivisti e attiviste di ogni credo che combattono insieme a noi per la fine dell’occupazione.
Opporsi all’occupazione israeliana ha un prezzo…
Organizzare la raccolta delle olive non è consentito se sei un palestinese che vive sotto la legge militare israeliana. Rifiutarsi di camminare chilometri sotto il sole e il freddo per raggiungere la propria casa a causa della chiusura “improvvisa” di una strada è illegale secondo la legge militare israeliana. È considerato incitamento alla violenza. Filmare e documentare gli abusi dei coloni e dei soldati israeliani significa rischiare ulteriori soprusi sulla propria pelle. In altre parole, la propria vita. Sono stato arrestato dall’esercito di occupazione dopo essere stato preso a calci e pugni dai coloni israeliano… Quante volte? Ho perso il conto. Sono stato condannato per sei capi d’accusa: tre per aver “partecipato a manifestazioni senza permesso”, due per “ostruzione delle forze di sicurezza” e uno per “aggressione”. Le condanne riguardano la mia partecipazione a una serie di proteste pacifiche che risalgono al 2010. L’accusa di ostruzione si riferisce ad un sit-in del 2012, durante il quale ho chiesto la riapertura dell’edificio dove un tempo sorgeva il municipio di Hebron. E poi mi hanno accusato di aver “spinto” un soldato…! Un episodio che risale a dieci anni fa, dove le affermazioni dei soldati non solo non sono verificabili, ma sono avvenute in una situazione in cui sono stato ferito dallo stesso soldato che poi mi ha accusato di averlo aggredito. Queste condanne sono il frutto di un sistema militare che punisce ogni forma di resistenza pacifica. Mira a sopprimere la nostra voce e a porre fine a qualsiasi forma di attivismo contro l’occupazione israeliana. L’Autorità nazionale palestinese rappresenta un ulteriore barriera. È corrotta e viola costantemente i nostri diritti. Nel 2017 l’Autorità mi ha arrestato senza un mandato con l’accusa di “incitamento alla discordia”.
Negli ultimi mesi si è registrata un’impennata della violenza ai danni dei palestinesi. Siamo di fronte ad una svolta peggiorativa delle tensioni?
In seguito alle recenti elezioni, le restrizioni e gli attacchi contro la popolazione civile palestinese sono incrementati vertiginosamente sia da parte del corpo di polizia e dell’esercito che da parte dei coloni. Le maggior parte degli abusi che ho riportato alla polizia israeliana non sono stati neanche oggetto d’indagine. È evidente che le autorità israeliane non lavorano per condannare la violenza dei coloni, ma anzi, la appoggiano e certe volte vi partecipano in prima persona. La causa è sempre l’occupazione. E l’occupazione serpeggia non da oggi, ma da oltre mezzo secolo. Oggi il Ministro della Sicurezza Nazionale è Itamar Ben Gvir, colono della città di Hebron e cultore del khanismo, movimento dichiarato razzista dalla stessa Corte suprema di Israele nel 1988. Itamar Ben Gvir incarna il suprematismo ebraico. Fino a poco tempo fa, nel suo ufficio troneggiava una grande foto di Baruch Goldestein, il colono kahnista che nel 1994 uccise a sangue freddo 29 musulmani palestinesi in preghiera presso la Tomba dei Patriarchi di Hebron….
Che cosa significa per un palestinese vivere nella città di Hebron?
Il Protocollo di Hebron del 1997, che faceva parte degli accordi di Oslo del 1994, ha diviso la città in due parti: H1 e H2. La prima, amministrata dall’Autorità nazionale palestinese, comprende l’80% del territorio, mentre la seconda corrisponde all’area dove circa 800 coloni vivono a stretto contatto con gli oltre 40mila palestinesi limitati nei loro spostamenti e costretti a passare quotidianamente per rigidi e umilianti controlli. Oltre 200 militari presiedano giorno e notte i checkpoint che costellano il cuore della città vecchia di Hebron e che ostacolano la vita quotidiana dei palestinesi, impossibilitati a percorrere certe strade o obbligati ad attraversarne altre unicamente a piedi anziché che con i propri mezzi. Io, per esempio, non ho accesso alla casa dei miei nonni…! La zona H2 è una terribile rappresentazione della sofferenza quotidiana del popolo palestinese costretto a vivere sotto occupazione. Ti sono negati i servizi più basilari: elettricità, acqua, assistenza sanitaria. Ad ogni checkpoint gli uomini devono alzare la maglia e l’orlo dei pantaloni, le donne svuotare le borse e farsi controllare dalle soldatesse mentre i bambini sono obbligati a mostrare il contenuto dei loro zaini. Dopo il massacro del 1994 e la firma del Protocollo di Hebron nel 1997, tutto è cambiato. Ci hanno negato persino la vita sociale. Un tempo Hebron era la forza economica di tutta la Cisgiordania. Ad oggi oltre 520 negozi della città Vecchia sono stati chiusi per ordine militare e mai riaperti. Motivi di sicurezza, dicono. Oltre 1000 negozi sono stati abbandonati dai proprietari per mancanza di clienti. La gente non riesce a raggiungere le attività commerciali a causa degli oltre 100 blocchi: muri, blocchi stradali, checkpoint. Ma non solo. Si vive nella paura e nell’ansia costante che possa succedere qualcosa ai propri cari. Oggi, l’esercito di occupazione non ti caccia dalla tua casa, ma ti rende la vita impossibile e quindi sei costretto ad andartene. È evidente che l’obiettivo del governo israeliano è quello di annettere la zona H2 a Israele. La catastrofe continua.
Secondo l’ultimo report di Amnesty International, l’utilizzo dei sistemi di riconoscimento facciale segna un nuovo approccio nella violazione dei diritti umani…
Lo Stato di Israele sta utilizzando in maniera sempre più estesa nuove tecnologie di sorveglianza, per monitorare ogni nostro movimento. Nella città di Hebron e a Gerusalemme Est le autorità israeliane stano sperimentando senza il nostro consenso il sistema di riconoscimento facciale noto come “red wolf”. Questo sistema si basa sullo scaglionamento dei volti delle persone per poi essere comparato con dati biometrici presenti nell’enorme archivio “wolf pack”, consentendo ogni informazione personale sui palestinesi che abitano nei territori occupati e accessibile in ogni momento alle forze di occupazione israeliane attraverso l’applicazione “blue wolf”. Ovviamente queste forme di sorveglianza capillare non si limitano ai check-point. Come ha riportato Amnesty International, nella città di Hebron, le telecamere montate sono ovunque, dai lampioni ai tetti degli edifici. Un vero e proprio regime di apartheid digitale….
Insieme all’organizzazione israeliana Breaking the Silence, abbiamo scritto un report per denunciare la situazione attuale dei fatti. Solo nel posto di blocco 56 nel quartiere di Tel Rimedia abbiamo individuato almeno 24 dispostivi di sorveglianza audio-visiva e altri sensori. Il sistema di smart city adottato ad Hebron rappresenta quindi un ulteriore deterioramento delle modalità di controllo ai danni dei palestinesi. Sebbene le autorità israeliane adducano motivi di sicurezza interna come giustificazione a tali controlli, sappiamo bene che sono condotti su base etnica, razzista e discriminante. Tutto questo avviene nel silenzio e con la complicità della comunità internazionale…
A proposito di comunità internazionale. Nel recente incontro alla Camera dei deputati, hai invitato alcuni membri del Parlamento italiano a visitare la città di Hebron e a prendere parola contro l’occupazione israeliana…
Le strade della zona H2 di Hebron sono state pattugliate per oltre venti anni dalla Tiph (Temporary international Presence in Hebron), il contingente di osservatori di sei paesi – Italia, Norvegia, Svezia, Svizzera e Turchia. Le testimonianze che riportano gli abusi quotidiani dei coloni ai danni della popolazione palestinese sono migliaia. Dovrebbe essere tutto custodito presso il Ministero degli Esteri in Italia…Ma nessuno di questi coloni è stato mai condannato per le proprie azioni. Se è vero che la maggioranza supporta ed è complice dell’occupazione israeliana, ci sta chi ha il coraggio di perseguire la strada della giustizia. Questo ci restituisce speranza. Ci sono persone pronte a imparare dai palestinesi, ad andare guardare l’occupazione con i propri occhi e a raccontarla senza censure. La presenza e il supporto internazionale è fondamentale. Perché senza azioni concrete, l’occupazione non cesserà. Il nostro legame con la società civile italiana è profondo e antico. La cultura, il calcio, il cibo, la moda… E la solidarietà! Battersi per il diritto dei palestinesi di vivere in giustizia, significa lottare contro ogni forma di oppressione, razzismo, islamofobia e antisemitismo.
Che cosa ci riserva il futuro?
Il presente è buio. Ma conservo la capacità interiore di immaginare un futuro diverso e di giustizia sociale. La pace arriverà grazie a noi palestinesi, agli israeliani che hanno scelto di lottare al nostro fianco contro l’occupazione, ai palestinesi e agli ebrei della diaspora e a tutti coloro che hanno a cuore i diritti umani. Pace significa giustizia… E gli occupanti dovranno essere perseguiti legalmente per i loro quotidiani abusi e le gravi violazioni ai danni della popolazione palestinese. Lavorare insieme ci da protezione. Senza la presenza degli attivisti e delle attiviste, non sarei qui ora a parlare con te. Noi palestinesi viviamo senza alcun tipo di diritto. Insieme possiamo apportare un cambiamento significativo per rendere l’apartheid e l’occupazione sempre un passo più vicina alla sua fine. La nostra lotta riguarda l’occupazione, la storia – e quindi il passato – ed il futuro.