di Michelangelo Cocco*
Pagine Esteri, 8 settembre 2023 – Incontrando lunedì sera il ministro degli esteri, Antonio Tajani, il suo omologo cinese, Wang Yi, ha dichiarato che il memorandum sulla nuova via della Seta ha «dato i suoi frutti all’Italia». Wang ha risposto così a Tajani, che prima d’imbarcarsi per Pechino aveva lamentato che il documento sottoscritto nel marzo 2019 dal governo Conte I «non ha portato i risultati che ci aspettavamo». Il faccia a faccia Tajani-Wang ha avuto luogo lunedì sera a Pechino, a margine della XI sessione plenaria del comitato governativo Italia-Cina (la precedente si era svolta il 29 dicembre 2020).
Wang – che in quanto segretario della commissione affari esteri del Partito comunista cinese è il massimo responsabile, assieme a Xi Jinping, della politica estera della Cina – ha ricordato a Tajani, che è anche vice presidente del Consiglio, che «negli ultimi cinque anni, le esportazioni dell’Italia verso la Cina sono aumentate di circa il 30 per cento». «Di fronte alle sfide e alle interferenze geopolitiche, Cina e Italia dovrebbero andare d’accordo sulla base del rispetto e della fiducia reciproca», ha affermato Wang, aggiungendo che la cooperazione e gli interessi comuni tra la Cina e l’Unione Europea «superano le differenze».
La visita di Tajani (3-5 settembre) è servita a Pechino per mandare un messaggio chiaro al capo del governo, Giorgia Meloni, fugando le speculazioni degli ultimi mesi: la Cina tiene all’adesione dell’Italia (unico paese del G7 a farne parte) alla nuova via della Seta lanciata nel 2013 da Xi Jinping, anche se – ha puntualizzato il quotidiano Global Times – un’eventuale uscita dal memorandum (da notificare formalmente a Pechino entro la fine dell’anno) non costituirebbe un “ostacolo fondamentale” per le relazioni Italia-Cina.
E ciò non solo per «l’amicizia millenaria ereditata dall’antica via della seta» che, ha sostenuto Wang, «rimane sempreverde». Il fatto è che dalla ripresa, a fine 2022, delle sue attività diplomatiche in presenza, Pechino sta esercitando un pressing costante per convincere l’Unione Europea a non seguire la strada – un mix di protezionismo e contenimento tecnologico – tracciata dagli Stati Uniti per frenare l’ascesa della Cina. In tale quadro geopolitico, qualora Meloni decidesse di “superare” il memorandum, una rappresaglia contro la terza economia dell’Ue (a colpi, ad esempio, di cancellazione di ordinativi e/o boicottaggio di alcuni prodotti italiani) inquieterebbe i 27, avvicinandoli ulteriormente agli Usa.
Inoltre a Pechino sanno che se l’esecutivo Meloni cancellerà il memorandum, lo farà soprattutto perché il principale partito della maggioranza (Fratelli d’Italia) e la sua leader hanno la necessità strategica di accreditarsi presso Washington, scrollandosi di dosso quel sentore di partito post-fascista (e, in parte, anti-statunitense) retaggio del Movimento sociale italiano e facendo dimenticare al tempo stesso l’improvvisato tentativo dell’esecutivo giallo-verde – del quale il memorandum sulla via della Seta rappresenta l’emblema – di riequilibrare la politica estera italiana, rendendola un po’ meno dipendente da Washington e un po’ più attenta alla Cina e ai paesi emergenti.
Meloni fa dunque affidamento sulla necessità di Pechino di mantenere buoni rapporti con Bruxelles e prepara una “alternativa” al, ovvero una “uscita soft” dal, memorandum. «Mentre stiamo valutando la partecipazione alla via della Seta – ha dichiarato Tajani -, vogliamo potenziare l’accordo di cooperazione rafforzata, quindi continueremo a lavorare dal punto di vista economico, industriale, commerciale con la Cina». Inoltre si punta sui viaggi ufficiali: nelle prossime settimane sono attese in Cina le ministre della ricerca e università, Anna Maria Bernini, e del turismo, Daniela Santanchè. Poi sarà la volta di Meloni e, l’anno prossimo, del presidente Mattarella.
Incontrando il ministro del commercio; Wang Wentao, Tajani ha ribadito l’auspicio di esportare di più in Cina. L’export italiano verso la Cina è leggermente aumentato (-0,6 per cento, +22,1 per cento e +5 per cento negli anni 2020, 2021 e 2022, passando da 12,8 a 16,4 miliardi di euro). La Repubblica popolare cinese assorbe circa il 10 per cento dell’export complessivo dell’Italia. Per le aziende italiane – in maniera particolare per quelle del settore della meccanica – si tratta di un mercato importante, a maggior ragione in una fase nella quale l’Europa si starebbe avviando a entrare in una fase di recessione. A chi scrive risulta che ai timori per eventuali contraccolpi negativi su export e investimenti manifestatigli da un gruppo di imprenditori italiani incontrati domenica scorsa a cena Tajani abbia replicato: «Ma non avete capito in quale contesto geopolitico operiamo?».
Ma sostenere il “made in Italy” in Cina è molto più facile a dirsi che a farsi, per due motivi fondamentali: l’Italia non possiede ciò di cui la Cina ha più bisogno, cioè le materie prime e l’hi-tech, che a Pechino sono disposti a pagare a caro prezzo; le piccole e medie imprese italiane non riescono a soddisfare le massicce e repentine richieste del mercato cinese. Inoltre, a complicare lo scenario, la domanda dei consumatori cinesi continua a non decollare e il costante rallentamento dell’economia farà sì che nel mercato interno in molti settori il governo di Pechino sarà costretto ancora a favorire le compagnie locali rispetto a quelle straniere.
L’impegno da parte della Cina ad aumentare le importazioni dall’Italia non era stato introdotto nel memorandum siglato dall’allora ministro degli esteri, Luigi Di Maio. Su questo fronte si sarebbe potuto chiedere certamente di più, inserendo clausole ad hoc in quello che pure è un semplice memorandum, che non ha rango di trattato internazionale. E l’Italia ha fatto pochissimo anche per attivarsi sulla cooperazione infrastrutturale, che nel documento è auspicata, anche in paesi terzi. Il memorandum si è dimostrato in parte inutile, in parte è rimasto lettera morta, anche a causa delle difficoltà di comunicazione legate alla pandemia. E ora la Cina – non avendovi imbarcato altri paesi del G7 – guarda più a quelli dei Brics e della Sco che alla “vecchia” nuova via della Seta.
Quello del memorandum è un problema che Meloni si è creato da sola, dichiarando urbi et orbi in campagna elettorale che il testo firmato dall’ex capo della Farnesina, Luigi Di Maio, è stato «un grosso errore» per compiacere gli americani, salvo poi, una volta entrata a palazzo Chigi, rendersi conto dell’importanza dei rapporti Italia-Cina, e dunque della necessità di non irritare Pechino. Ed è un problema secondario, derivante dalla mancanza di una politica strutturata e coerente nei confronti del nostro primo partner commerciale in Asia.
Meloni non ha una strategia come quelle che hanno contribuito recentemente ad aumentare gli investimenti in Cina di Germania e Francia, i principali concorrenti economici dell’Italia nell’Ue. Negli ultimi mesi, l’esecutivo Scholz ha pubblicato una strategia sulla Cina e perfino siglato un memorandum, su cambiamento climatico e cooperazione ambientale. Mentre a Parigi Emmanuel Macron ha sedotto Pechino con la sua idea di “autonomia strategica” dell’Ue ed è arrivato a dichiarare che l’Unione dovrebbe tenersi alla larga da un eventuale conflitto su Taiwan. Meloni invece è rimasta impantanata nel “vecchio” memorandum giallo-verde, che Pechino aveva potuto rivendicare come un riconoscimento politico.
Tutti fattori che non potranno che raffreddare le relazioni Roma-Pechino. Pagine Esteri
*questo articolo è stato pubblicato in origine da Rassegna Cina, Centro studi sulla Cina contemporanea