di Geraldina Colotti* –
Pagine Esteri, 11 settembre 2023. Il 4 settembre del 1970, in piena “guerra fredda”, si tengono le elezioni presidenziali in Cile. Nessun candidato ottiene la maggioranza assoluta e perciò, in base alla Costituzione del 1925, il Congresso sceglie fra i due più votati. Un accordo fra i cristiano-democratici del presidente uscente, Eduardo Frei e le sinistre – che, dal 1969, hanno dato origine alla coalizione di Unità popolare (Up), per impulso del Partito socialista e del Partito comunista – porta alla vittoria Salvador Allende, chirurgo e uomo politico socialista: con una maggioranza relativa di solo il 36,6% dei voti sui candidati di destra e democristiani.
Allende non è uno sconosciuto, ha già corso per la presidenza in altre tre occasioni. Nella temperie del secolo scorso – il secolo delle rivoluzioni -, il suo programma non contempla una rivoluzione sul modello cubano, ma una transizione verso il socialismo per la via istituzionale: con il coinvolgimento attivo delle classi popolari e del movimento operaio attorno a un piano di riforme strutturali.
Il suo pacchetto di quaranta misure, approvate subito dopo il 3 novembre, quando si insedia il nuovo governo, prevede la riforma agraria, le nazionalizzazioni di aziende, miniere (soprattutto quelle del rame, di cui il Cile possiede le prime riserve al mondo) e di banche; la ridistribuzione del reddito e la partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’economia.
Tre giorni dopo l’assunzione d’incarico di Allende, il suo omologo statunitense, Richard Nixon, dichiara che il Cile è la sua principale preoccupazione, giacché gli Usa non possono permettere che l’esempio si diffonda nel loro “cortile di casa” senza conseguenze. Henry Kissinger, Consigliere per la sicurezza nazionale Usa, ha già reso esplicito l’orientamento del governo e della Cia, qualche mese prima dell’elezione di Allende: “Non vedo perché dobbiamo aspettare e permettere che un paese diventi comunista solo per l’irresponsabilità del suo popolo”, ha dichiarato.
Comincia, allora, con più forza, il processo di disarticolazione istituzionale del Cile, organizzato dalla Casa bianca. Attraverso giganteschi finanziamenti, Washington si serve della borghesia e dei latifondisti, di alcune grandi multinazionali, e delle Forze armate, addestrate nelle scuole di tortura nordamericane. A differenza di quanto sostengono la sinistra extraparlamentare e specialmente il Movimento della sinistra rivoluzionaria (Mir), diretto allora da Miguel Enríquez, Up pensa che i militari rispetteranno la volontà popolare. Si sbaglia.
Contro il “pericolo rosso” e un presidente che ha preso spazio sulla scena internazionale con un preciso ruolo anticolonialista, la guerra sporca darà i suoi frutti a colpi di sabotaggi, inflazione indotta e propaganda mediatica diretta ai ceti medi e al cattolicesimo nazional-conservatore. E di attentati, compiuti da Patria e Libertà. Nel ’72, gli aiuti militari rimangono l’unica forma di assistenza fornita da Washington, che si oppone anche alla possibilità che il Cile rinegozi il debito estero. Gli Usa hanno deciso di “far urlare l’economia cilena”.
Il 29 giugno del 1973, i militari fedeli al governo socialista sventano un tentativo di golpe a Santiago (“el Tanquetazo”). L’11 settembre 1973, il governo Usa, sostenuto anche dalla dittatura militare brasiliana, raggiunge però l’obiettivo: diversi settori delle forze armate effettuano un colpo di stato. Allende, con un gruppo di compagni, si rifugia nel palazzo della Moneda e combatte fino all’ultimo. La fine, è nota, almeno per la verità di Stato: il presidente socialista si sarebbe sparato prima di essere catturato. Secondo varie inchieste, invece, sarebbe stato ucciso durante i combattimenti, lasciando nei suoi ultimi discorsi pubblici, un messaggio di resistenza.
La fine è nota, almeno per la scia di sangue che la dittatura militare guidata da Pinochet ha lasciato nei 16 anni in cui ha imperversato, sostanziata a livello economico dalle politiche dei “Chicago Boys”: l’assassinio di almeno 3200 persone, fra cui oltre un migliaio di desaparecidos, e altre migliaia di esuli.
La “primavera allendista” è durata solo tre anni, ma è rimasta uno spartiacque e anche un monito per quanti, nel continente, hanno provato a ricostruire un blocco sociale alternativo al neoliberismo dilagato dopo la caduta dell’Unione sovietica. La destra latinoamericana non ha mai dismesso la vocazione golpista, poi evoluta nelle forme del “golpe istituzionale” e nell’uso della magistratura a fini politici (il lawfare). E i governi che hanno inaugurato il “ciclo progressista” dopo la vittoria di Hugo Chávez in Venezuela (nel 1998), hanno dovuto prendere sul serio la “lezione” di Allende.
In forme più spinte o modulate, hanno messo in primo piano la necessità di democratizzare le forze armate, istituendo, a livello regionale, scuole di formazioni militari, alternative a quella nordamericana che ha addestrato i dittatori del Cono Sur. L’esempio più avanzato è il Venezuela, dove “l’unione civico-militare” ha trasformato i militari in un “esercito di tutto il popolo” al servizio della “pace con giustizia sociale”; ma il risultato più importante è quello del Brasile, dove si è cercato di invertire di segno alla dottrina militare di matrice Usa, imponendone un’altra a livello regionale. Infatti, nonostante le pressioni di Trump, e malgrado la persistente eredità della dittatura, le forze armate brasiliane non hanno accettato di invadere il Venezuela nel 2009, né hanno effettuato un altro golpe in Brasile agli ordini di Bolsonaro.
A cinquant’anni dall’uccisione di Allende, e dopo il dilagare dello slogan thatcheriano “there is no alternative”, la sinistra latinoamericana ha verificato che le alternative al neoliberismo esistono, ma si devono difendere con le unghie e con i denti. E che, soprattutto, il modello imposto da Washington, a 200 anni dalla Dottrina Monroe, serve solo al beneficio di pochi. Certo, nell’interludio tra la notte e l’alba, avvertiva Gramsci, sorgono mostri. L’eredità delle dittature è ancora ben presente, e la difesa del presidente cileno Gabriel Boric poggia su basi ben più friabili di quella di Up.
E lo scoglio insormontabile per qualsivoglia vero cambio di indirizzo, in Cile, resta sempre la costituzione imposta da Pinochet. Nel 2020, il 78% degli elettori aveva chiesto con un referendum che venisse cambiata. A settembre del 2022, però, il testo proposto da Boric, frutto di avanzate proposte della base, relative alla parità di genere, alla difesa dell’ambiente e al riconoscimento dell’identità dei popoli originari, è stato bocciato dalle urne con il 62% dei voti, dopo una feroce campagna mediatica.
E una preponderanza schiacciante della destra e dell’estrema destra pinochettista ha visto anche l’elezione dei 50 membri del Consiglio costituzionale, che porteranno un testo a misura di sistema al referendum del 17 dicembre, inizialmente previsto per novembre. Privo di maggioranza parlamentare, il governo Boric, sotto ricatto dei sempiterni poteri forti che comprimono il Cile, cerca di rosicchiare a colpi di compromessi qualche brandello di riforma. Non è, però, riuscito a incarnare le speranze suscitate dalla sua elezione, a dicembre del 2021, quando fu il presidente più votato nella storia del paese.
Durante una cerimonia in vista del cinquantennale del golpe, alcuni degli invitati internazionali hanno paragonato il governo Allende con quello di Boric. Un accostamento inopinato, non solo per la provenienza del giovane presidente dalle componenti più moderate della lotta degli studenti, nel 2011, ma soprattutto per le sue posizioni in politica estera, più attente a cercare intese con l’occidente e l’Europa che con la parte più avanzata del continente latinoamericano.
La scrittrice nicaraguense Gioconda Belli, ex guerrigliera che preferisce vivere negli Stati uniti da oppositrice del governo sandinista, ha lodato Boric: “un gran democratico e un gran socialista” – ha detto – per aver dichiarato che “il regime di Daniel Ortega viola i diritti umani e non è democratico”. Un giudizio che il presidente cileno ha riservato anche ad altri governi lontani dagli Usa, come Cuba e Venezuela, soprassedendo sulle denunce inascoltate alla violenza dei carabineros. Difficile che Allende, socialista e antimperialista, apprezzerebbe.
Intanto, in Cile come in altre parti dell’America latina, il fascismo non ha complessi di colpa. Pinochet morì nel suo letto nel 2006, ma a rimpiangerlo e ad ammirare la dittatura è il capofila dell’estrema destra cilena, José Antonio Kast. Come lui la pensa, secondo una recente inchiesta, il 36% della popolazione, convinta che il golpe contro Allende fosse motivato, a fronte del 16% per cento che lo pensava nel 2013. E alle ultime primarie in Argentina ha stravinto un ultra-trumpista che rivendica senza vergogna la dittatura militare, Javier Milei.
Mediante l’imposizione di misure coercitive unilaterali illegali, gli Stati uniti e i loro alleati continuano a “far urlare” le economie recalcitranti dell’America latina, pensando, in fondo come Kissinger allora: occorre evitare che l’esempio si estenda. Nei momenti più duri dell’assedio nordamericano, il Venezuela di oggi assomigliava in modo impressionante al Cile dell’Unidad Popular, così descritto da Isabel Allende nel romanzo La casa degli Spiriti:
“L’organizzazione era una necessità, perché la strada verso il Socialismo molto presto si trasformò in un campo di battaglia (…) la destra metteva in campo una serie di azioni strategiche volte a fare a pezzi l’economia e seminare il discredito contro il Governo.
La destra aveva nelle sue mani i mezzi di diffusione più potenti, contava con risorse economiche quasi illimitate e con l’aiuto dei ‘gringos’, che mettevano a disposizione fondi segreti per il piano di sabotaggio. A distanza di pochi mesi sarebbe stato possibile osservarne i risultati.
Il popolo si trovò per la prima volta con sufficiente denaro per soddisfare le proprie fondamentali necessità e per comprare alcune cose che sempre aveva desiderato, ma non poteva farlo, perché gli scaffali erano quasi vuoti.
La distribuzione dei prodotti cominciò a venire meno, fino a quando non divenne un incubo collettivo…”.
I meccanismi della guerra economico-finanziaria, oggi egemoni rispetto alle aggressioni militari della “guerra fredda”, sono però già parte integrante delle analisi e delle strategie politiche delle nuove esperienze latinoamericane: che, nelle loro parti più avanzate, mirano a costruire una nuova articolazione di lotta, “dal basso e dall’alto”, ispirandosi al Lenin di Due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica.
A differenza di quanto avviene da noi, dove non siamo riusciti a vincere né con le armi, né con le urne, e dove la lezione di Allende si è ridotta a difesa acritica di alleanze e compatibilità nella democrazia borghese, la guerra per la memoria è ancora un terreno di lotta politica per nuove prospettive. Pagine Esteri
* Giornalista e scrittrice, Geraldina Colotti è nata a Ventimiglia. Ha vissuto a lungo a Parigi, oggi vive e lavora a Roma. Dopo aver scontato una condanna a 27 anni di carcere per la sua militanza nelle Brigate Rosse, cura la versione italiana del mensile di politica internazionale Le Monde diplomatique. Esperta di America Latina, scrive per diversi quotidiani e riviste internazionali (Al Mayadeen, Venezuela news). È corrispondente per l’Europa di Resumen Latinoamericano e del Cuatro F, la rivista del Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV). Fa parte della segreteria internazionale del Consejo Nacional y Internacional de la comunicación Popular (CONAICOP), delle Brigate Internazionali della Comunicazione Solidale (BRICS-PSUV), della Rete Europea di Solidarietà con la Rivoluzione Bolivariana e della Rete degli Intellettuali in difesa dell’Umanità.
Di formazione filosofica, ha pubblicato libri per ragazzi (tra questi Il segreto, edito da Mondadori), raccolte di racconti e di poesie, romanzi e saggi, tradotti in diverse lingue, fra cui Per caso ho ucciso la noia (Voland), e Certificato di esistenza in vita (Bompiani). Insieme a Marie-José Hoyet ha tradotto dal francese due libri di Édouard Glissant, Tutto-mondo (Edizioni lavoro), e La Lézarde (Jaca Book). Tra i suoi saggi, pubblicati anche in Venezuela, Oscar Arnulfo Romero, beato fra i poveri (Clichy); Dopo Chávez. Come nascono le bandiere (Jaca Book); Hugo Chávez, così è cominciata (PGreco). Con Veronica Diaz e Gustavo Villapol, Assedio al Venezuela (Mimesis). Per le edizioni Multimage ha curato il volume Alex Saab, lettere di un sequestrato. Con Vittoria Rubini ha tradotto e curato il volume Guerriglia semiotica, di Fernando Buen Abad, edito da Argo libri.
La sua ultima raccolta di poesie s’intitola Quel sole e quel cielo, edita da La Città del sole. Insieme a Gabriele Frasca e a Lucidi ha curato l’antologia Poesía contra el bloqueo, pubblicata come e-book in Italia (Argo libri), a Cuba (Coleccion Sur dell’Uneac, con il supporto della Rete degli Intellettuali in Difesa dell’Umanità, capitolo cubano, e il patrocinio del Festival Internazionale di Poesia dell’Avana), e in Venezuela da Vadell hermanos.
Ha curato l’edizione italiana di Il credo, di Aquiles Nazoa (PGreco)