di Eliana Riva –
Pagine Esteri, 18 settembre 2023. Dal 16 al 18 settembre 1982 le Falangi libanesi massacrarono uomini, donne e bambini inermi. Per tre giorni, ininterrottamente, i miliziani usarono armi da fuoco, coltelli, accette per fucilare, decapitare, sgozzare e mutilare un numero imprecisato di civili (dalle centinaia ai 3.500 morti) rimasti senza protezione alcuna all’interno dei campi profughi di Sabra e Chatila.
Erano palestinesi, rifugiati in Libano dopo essere stati cacciati dalle proprie case durante la Nakba, la loro “Catastrofe” cominciata (e mai terminata) insieme alla nascita dello Stato di Israele.
Proprio Israele aveva cominciato in Libano, nel giugno del 1982, un’invasione di terra con l’obiettivo dichiarato di cacciare i combattenti palestinesi dal Paese. La forza bellica dell’esercito israeliano travolse città, quartieri, campi profughi e l’enorme impiego di mezzi militari consentì di raggiungere, in pochi mesi, la capitale, Beirut. I campi profughi di Sabra e Chatila vennero circondati. I combattenti palestinesi, chiusi al loro interno, si preparavano a quello che sarebbe stato senz’altro un massacro: le poche armi di cui erano in possesso non avrebbero mai potuto competere con i mezzi israeliani.
Le forze internazionali, però, intervennero. Gli Stati Uniti di Ronald Regan si fecero promotori di una mediazione e garanti dell’accordo che le pari raggiunsero: i combattenti palestinesi avrebbero lasciato Sabra e Chatila, portando via le proprie armi e Israele avrebbe lasciato vivere coloro che rimanevano, quasi esclusivamente donne, anziani, bambini e bambine.
Poco meno di un mese prima Bashir Gemayel, capo militare delle Falangi libanesi, partito denominato Katā’eb, una formazione di estrema destra fondata dal padre Pierre Gemayel, venne eletto Presidente della Repubblica. Avrebbe dovuto insediarsi a breve ma venne ucciso da un attentato il 14 settembre.
Nonostante i responsabili della sua morte non fossero i palestinesi, le Falangi intendevano vendicare il proprio leader con il sangue dei profughi. Ma a controllare i campi era l’esercito israeliano e nessuno entrava o usciva da lì senza il consenso dei vertici militari, sotto il comando del Ministro della Difesa Ariel Sharon.
Gli israeliani avevano completamente chiuso il perimetro, osservavano i campi dall’alto degli edifici che li circondavano e li illuminavano, se necessario, con i fari che avevano montato tutto intorno.
Il 16 settembre i militari israeliani ebbero l’ordine di far passare i miliziani delle Falangi libanesi, a centinaia, armati e pronti alla vendetta. La popolazione dei campi fu colta di sorpresa. Gli abitanti, inermi, subirono per tre giorni e tre notti la furia dei miliziani che si fermavano solo quando, stremati dalla fatica fisica delle uccisioni, andavano a riposare lasciando il posto a unità più fresche.
Dopo la strage alcuni dei corpi furono gettati in fosse comuni, nel tentativo di coprire le dimensioni del massacro. Ma i cadaveri erano troppi e molti furono lasciati per le strade, preda delle mosche e degli animali. Uno dei primi a giungere nei campi dopo il ritiro dei libanesi fu Robert Fisk, giornalista inglese che scrisse un terribile e indimenticabile articolo intitolato, appunto, “Ce lo dissero le mosche”. Ciò che si aprì dinanzi agli occhi suoi e degli internazionali che arrivarono fu uno scenario di morte, violenza estrema e indiscriminata impossibile da dimenticare.
Per quel massacro nessuno pagò. Israele tentò dapprima di nascondere la propria responsabilità ma quando le immagini e le notizie cominciarono a circolare, l’eco divenne internazionale. Ovunque si parlava della strage, sui giornali, nelle università. Il tradimento della comunità internazionale venne smascherato, le responsabilità furono chiaramente definite. Eppure. Eppure la commissione di inchiesta israeliana che si occupò della questione, la Commissione Kahan, riconobbe una responsabilità “indiretta” di Israele e del suo Ministro della Difesa, colpevole, secondo il suo giudizio, solo di aver sottovalutato le possibili conseguenza dell’azione falangista all’interno dei campi profughi.
Elie Hobeika, colui che guidava e comandava le milizie cristiano-maronite di estrema destra durante l’attacco a Sabra e Chatila, divenne, nel 1990, Ministro per i Profughi in Libano. Venne ucciso da un attentato nel 2002, dopo aver dichiarato di essere pronto a parlare dinanzi alla Corte Penale Internazionale delle reali responsabilità israeliane in merito al massacro del 1982.
Sabra e Chatila esistono ancora. Così come i profughi palestinesi, che vivono in condizioni di povertà, indigenza, in mancanza delle basilari misure sanitarie e di sicurezza, ammassati l’uno sull’altro perché, nonostante la crescita della popolazione dei campi, la legge libanese non gli permette di acquistare un’abitazione. Gli è vietato esercitare in Libano, se non all’interno dei campi profughi, circa 70 professioni, tra le quali quelle di medico, insegnante, ingegnere, avvocato, commercialista.
Molti abitanti dei campi in Libano, quelli più giovani, soprattutto, provano a fuggire verso l’Europa, affrontando lunghi e pericolosi viaggi in mare che spesso si trasformano in terribili naufragi.
A gennaio del 2023 Pagine Esteri ha prodotto un documentario in occasione dei 40 anni dalla strage. “Il cielo di Sabra e Chatila”, girato in Libano a settembre del 2022, racconta le fasi della strage e quella che è oggi la vita all’interno dei campi profughi palestinesi in Libano. Durante l’anno si sono tenute numerose proiezioni in varie regioni di Italia, da nord a sud. La versione inglese è stata trasmessa in chiaro dal Palestine Museum degli Stati Uniti ed è in uscita una nuova versione in francese.
Le prossime proiezioni sono previste ad Acerra (NA) il 21 settembre, a Roma, all’interno del Falastin Festival il 30 settembre, e a Salerno, con Femminile Palestinese il 6 ottobre. Per ulteriori notizie è possibile consultare il calendario qui.