di Eliana Riva –
Pagine Esteri, 17 aprile 2024. Hanno consigliato di “ammorbidire” i detenuti e di dedicare loro un “trattamento speciale”. Hanno istruito i militari sulle tecniche utili per “facilitare” gli interrogatori, utilizzando cioè torture fisiche e abusi contrari alle leggi internazionali. Hanno mentito agli investigatori sul proprio ruolo, sulla loro presenza e sugli abusi. Queste sono solo alcuni degli elementi che emersero nel 2004 dall’indagine della squadra investigativa militare guidata dal maggiore generale Antonio M. Taguba e che riguardano il coinvolgimento dei dipendenti della CACI Premier Technology, Inc. nelle torture perpetrate da militari e civili statunitensi all’interno della prigione di Abu Ghraib, in Iraq.
La CACI è una società di sicurezza privata con sede in Virginia, assunta dal governo degli Stati Uniti per occuparsi di interrogatori e di traduzioni all’interno del carcere iracheno dopo l’occupazione del Paese. È stata costretta a presentarsi in tribunale per rispondere delle accuse mosse da alcune vittime di Abu Ghraib in una causa federale intentata dal Centro per i diritti costituzionali. La società statunitense è accusata di aver diretto e partecipato a comportamenti illegali, compresa la tortura.
Il pesante coinvolgimento delle ditte appaltatrici è stata una delle caratteristiche distintive della presenza americana in Iraq dopo l’invasione del 2003, seguita alle famose accuse, rivelatesi del tutto infondate, sulla presenza di armi chimiche di distruzione di massa e sui legami di Saddam Hussein con al-Qaeda.
La prigione di Abu Ghraib era un vasto complesso carcerario già utilizzato da Saddam e riaperto dagli americani quando la resistenza irachena ha cominciato ad organizzarsi, chiedendo la fine dell’occupazione. Poco dopo l’arrivo degli eserciti stranieri il caos, le distruzioni e i saccheggi governavano l’Iraq. Gli Stati Uniti avevano scelto di gestire l’occupazione senza preoccuparsi dell’ordine pubblico e l’impunità e la mancanza di controllo si tradussero in atti gravissimi, devastazioni materiali e razzie di un patrimonio culturale immenso, come quello del Museo nazionale iracheno, considerato uno dei più belli del mondo. I militari non erano stati addestrati a sufficienza e ignoravano lingua, tradizioni e usanze della società irachena, creando continue situazioni di umiliazione e suscitando rabbia e indignazione nella popolazione. Tutto ciò fu aggravato dal fatto che gli americani si affidassero sempre di più e sempre più spesso a imprese private. Per la ricostruzione, per i servizi logistici riservati alle truppe, per l’installazione di basi militari (ne furono costruite almeno 14), per il petrolio. Una di queste è la Halliburton, un tempo gestita da Dick Cheney, vice-presidente di George W. Bush, che in 10 anni ha ricevuto almeno 39,5 miliardi di dollari in contratti federali relativi alla guerra in Iraq.
Nonostante i programmi, i proclami e gli enormi finanziamenti ai privati, però, il “divario della ricostruzione” ossia la differenza tra ciò che gli Stati Uniti avevano promesso dopo l’invasione e ciò che hanno poi consegnato è stato enorme. Per fare un esempio, i soldi di un contratto stipulato per la costruzione di 142 nuovi centri sanitari in tutto il Paese terminarono dopo la realizzazione della ventesima struttura.
I “contractor” gestivano anche, spesso, delle “milizie” private composte da cittadini di varia nazionalità e ingaggiate per la sicurezza di enti o singoli individui, ma anche per particolari operazioni di combattimento o per gli interrogatori. E gli iracheni da “interrogare” diventavano sempre di più con l’aumentare del malcontento che attraversava la società civile.
Nel 2004 alcune fotografie scattate all’interno del complesso carcerario di Abu Ghraib vennero consegnate ai giornali. Il mondo fissò negli occhi il sadismo, la crudeltà e la perversione senza avere possibilità, questa volta, di voltare lo sguardo.
Prigionieri nudi costretti a inscenare atti sessuali, una soldatessa che tira al guinzaglio un uomo come fosse un animale, una persona incappucciata e in piedi su una scatola legata a fili elettrici, piramidi di detenuti senza vestiti ammucchiati uno sull’altro, cani aizzati contro persone terrorizzate.
Per quegli atti undici militari furono condannati a un totale di 25 anni di prigione. La pena più severa, dieci anni, per il caporale Charles Graner (ne ha scontati 6 e mezzo), considerato il capo del sistema Abu Ghraib. Condannato a otto anni il sergente Ivan Frederick (ne ha scontati 4), che ha ammesso di aver legato un detenuto ai cavi elettrici e aver minacciato di ucciderlo se fosse caduto dalla scatola sulla quale era costretto a rimanere in equilibrio, bendato.
La “Al Shimari v. CACI” è una causa federale intentata nel 2008 dal Centro per i diritti costituzionali (Center for Constitutional Rights), con sede a New York, per conto di quattro vittime di tortura irachene, tutte rilasciate senza mai essere accusate di un solo crimine. In origine, il procedimento legale riguardava anche un’altra società statunitense, la Titan Corporation, che però ne è uscita accettando nel 2013 di pagare un risarcimento di 5,28 milioni di dollari a 71 ex prigionieri.
Diverso l’atteggiamento della CACI, che ha provato per 20 volte a respingere la causa, adducendo numerose e diverse motivazioni legali. Ha tentato, ad esempio, di avvalersi dell’immunità politica in quanto in Iraq agiva per nome e per conto del governo degli Stati Uniti. Nel 2013 ha fatto causa alle quattro vittime di tortura che la accusavano, chiedendo che pagassero 15.000,00 euro per le spese di viaggio dei testimoni e per le trascrizioni delle deposizioni. Nel 2021 hanno provato ad avvalersi della sentenza del processo contro la Nestlé, secondo cui la multinazionale non poteva essere citata in giudizio per la presunta complicità nel traffico e nella schiavitù di bambini dell’Africa occidentale nell’industria del cacao.
Il tribunale ha respinto le richieste, ritenendo la CACI perseguibile secondo lo Statuto della responsabilità civile straniera.
Salah Al Ejaili è una delle ex vittime rappresentate in tribunale. Giornalista freelance, lavorava per Al Jazeera quando i militari americani lo arrestarono e lo portarono nella prigione di Abu Ghraib. Imprigionato per circa sei settimane, è stato sottoposto a continue torture mentali e fisiche. “Il mio corpo era come una macchina che rispondeva a tutti i comandi esterni” ha raccontato. ” L’unica parte di me che ancora possedevo era il mio cervello, che non poteva essere controllato dal sacchetto di plastica nero che usavano per coprirmi la testa. La domanda più importante a cui non riuscivo a trovare una risposta era A cosa serve tutto questo?“.
Lunedì 15 aprile si è tenuta la prima udienza del processo, più di vent’anni dopo l’invasione dell’Iraq. È la prima volta che le vittime di tortura e trattamenti crudeli da parte di statunitensi ottengono un processo in un’aula di tribunale degli USA. Ciò è stato possibile facendo appello all’Alien Tort Statute (ATS), legge statunitense del 1789 che consente ai cittadini stranieri che sono stati sottoposti a violazioni del diritto internazionale, come la tortura e i trattamenti crudeli, di presentare una causa alla corte federale, anche contro una società USA quando esiste una connessione sufficiente con il governo.
Oltre a Salah Hasan Nusaif Al-Ejaili, gli altri tre querelanti, tutte vittime di tortura ad Abu Ghraib, sono Asa’ad Hamza Hanfoosh Zuba’e e Suhail Najim Abdullah Al Shimari.
Ieri la giuria, composta da cinque uomini e tre donne, ha ascoltato la testimonianza di Al-Ejaili, che ha raccontato le punizioni, le umiliazioni e le ingiustizie vissute nella prigione irachena, con l’emozione e il turbamento di chi dopo 20 anni porta ancora attaccato addosso tutto quel peso. Secondo uno degli avvocati dell’accusa, Baher Azmy, non solo il personale del CACI ha incoraggiato i militari ad abusare dei detenuti ma ha anche detto loro come fare. Ecco perché, secondo Azmy, “sono legalmente responsabili di quei comportamenti”. La società, dal canto suo, segue quella che fu a suo tempo la linea del governo degli Stati Uniti, secondo la quale poche “mele marce” hanno agito contro le regole e il diritto internazionale. La colpa, dunque, non sarebbe di chi li ha assunti né dei loro superiori né di chi li ha mandati in Iraq o di chi avrebbe dovuto controllare. L’avvocato dell’azienda, John O’Connor, intende inoltre portare avanti la tesi che siano stati i militari, non il CACI a gestire la situazione ad Abu Ghraib. In ogni caso, per il legale i querelanti difficilmente riusciranno a dimostrare tre elementi fondamentali per l’accusa: 1. Aver subito tortura; 2. Le torture erano collegate ai dipendenti della società; 3. La società stessa ne era a conoscenza. L’avvocato della difesa ha attaccato i militari statunitensi che sono stati condannati, spiegando però con il solo sadismo i terribili abusi compiuti: “Erano malati. Erano persone cattive. Erano criminali. Ma l’abuso non aveva alcuna connessione con lo scopo dell’interrogatorio“.
Il secondo testimone ha però complicato la strategia di O’Connor. Torin Nelson, ex militare “interrogatore”, dipendente della CACI ad Abu Ghraib nel 2003, ha dichiarato che il personale dell’esercito degli Stati Uniti incaricato di ottenere informazioni dai detenuti non aveva una formazione sufficiente e che quindi il ruolo della società era diventato centrale. Due dei dipendenti dell’azienda accusati di abusi nei rapporti governativi, secondo Nelson, erano eccessivamente violenti durante gli interrogatori, cosa che lui stesso denunciò ai militari.
Ma la dichiarazione probabilmente più importante è stata quella del rilasciata dal generale in pensione Antonio Taguba, a capo della prima commissione di inchiesta militare ad Abu Ghraib. L’ex militare ha testimoniato il vuoto nella catena di comando, e la convinzione che a riempirlo siano stati proprio i contractor civili. Taguba ha spiegato che durante la sua indagine si è reso conto di quanto fosse importante il ruolo della società privata all’interno della prigione, come rivelato da molti dei militari che ha interrogato. Tesi confermata al processo dal caporale Graner, nella sua testimonianza raccolta in una deposizione video del 2013. Il soldato condannato a 10 anni di prigione per le torture, ha affermato che gli “interrogatori” civili gli diedero istruzioni precise su come gestire i detenuti, complimentandosi poi per il buon lavoro che stava svolgendo. Pagine Esteri