di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 21 maggio 2024 – Mentre cresce la presenza militare russa, in Africa si estende il rifiuto di quella occidentale, considerata un indesiderabile retaggio storico del colonialismo pur giustificata dalla necessità di contrastare un tempo i movimenti guerriglieri e oggi le organizzazioni jihadiste.
Nei mesi scorsi era toccato alle truppe francesi ritirarsi da alcuni dei paesi del Sahel dopo le pressanti richieste dei governi nati dai colpi di stato militari degli ultimi anni, sostenute spesso da mobilitazioni popolari anche vigorose (anche se non sempre spontanee).
Niger: dopo i francesi tocca agli americani lasciare il paese
Alla fine del 2023 gli ultimi soldati di Parigi avevano dovuto abbandonare il Niger, uno dei paesi fino ad allora più importanti dello schieramento militare francese in Africa. Poche settimane dopo, la giunta militare di Niamey – al potere grazie al golpe del 26 luglio del 2023 – aveva chiesto anche la fine della presenza militare statunitense, accusando Washington di ingerenze negli affari interni del paese dell’Africa Occidentale, tra i maggiori produttori di uranio al mondo.
I responsabili politici e militari statunitensi avevano provato ad aprire dei negoziati con i golpisti, tentando di convincere la giunta ad accettare la permanenza di un numero limitato di truppe a stelle e strisce, ricevendo però un secco diniego.
La settimana scorsa, infine, i rappresentanti del Ministero della Difesa di Washington e di quello di Niamey, nel corso di un lungo incontro, hanno concordato che il ritiro dei mille militari statunitensi finora schierati in Niger – chiesto a gran voce da manifestazioni popolari sempre più aggressive – avverrà al massimo entro il 15 settembre prossimo.
Una nota congiunta afferma che il ritiro dei soldati statunitensi «non pregiudica la continuazione delle relazioni di sviluppo tra Stati Uniti e Niger» e che i due paesi rimangono «impegnati nel dialogo diplomatico per definire il futuro delle loro reazioni bilaterali», ma è chiaro che i golpisti hanno scelto di privilegiare le relazioni con la Russia e con la Cina e di approfondire l’integrazione con altri paesi del Sahel dove sono al potere i militari, come il Burkina Faso e il Mali.
A Niamey – dove per ora rimangono 250 soldati italiani e un centinaio di tedeschi – nelle scorse settimane sono sbarcati un centinaio di istruttori militari provenienti da Mosca e la Russia ha consegnato alla giunta un sistema di difesa antiaerea. Contemporaneamente, Niamey ha siglato un importante accordo petrolifero con Pechino.
Il Ciad chiede il ritiro dei militari di Washington
Come se non bastasse, improvvisamente, ad aprile, anche la giunta militare che guida il Ciad dopo l’auto-golpe del 2021 (al dittatore Idriss Déby, al potere da 31 anni e morto negli scontri con i ribelli, l’esercito sostituì il figlio Mahamat) ha chiesto il ritiro dei soldati di Washington, mettendo ulteriormente in crisi la strategia in Africa dell’amministrazione Biden.
Le tensioni tra i golpisti ciadiani a gli Stati Uniti erano iniziate nel 2023, quando Washington aveva avvisato che Mosca stava tramando un complotto contro la giunta – fino a quel momento in ottime relazioni con gli americani – e che aveva iniziato a sostenere i ribelli. Il governo di N’Djamena, però, non solo non ha preso contromisure contro Mosca ma ha approfondito le relazioni con la Russia. Lo scorso 24 gennaio Déby ha incontrato Vladimir Putin a Mosca, ricevendo assicurazioni sul contributo russo alla “stabilità del paese”.
In attesa di capire chi guiderà il paese nei prossimi anni – le elezioni presidenziali del 5 e 6 maggio sono state ufficialmente vinte da Déby ma sia il principale sfidante sia le opposizioni escluse dal voto contestano il risultato – il Pentagono ha “temporaneamente ritirato”, a inizio maggio, 60 dei 100 Berretti Verdi delle forze speciali finora di stanza a N’Djamena, nella speranza di aprire presto una trattativa che permetta un ritorno delle sue truppe in Ciad.
In Ciad, tra i paesi più poveri dell’area anche se ricco di petrolio, rimangono per ora un migliaio di soldati francesi, impegnati nel contrasto alle milizie jihadiste di Boko Haram. Ma nei prossimi giorni a N’Djamena dovrebbero arrivare ben 200 militari ungheresi mentre in città ha aperto il suo primo ufficio di rappresentanza in Africa “Hungary Helps”, l’agenzia di cooperazione governativa di Budapest.
Washington punta sul Kenya
Per cercare di mantenere e se possibile rafforzare le proprie posizioni nel continente africano, obiettivo al quale l’amministrazione Biden ha dedicato grandi sforzi dopo il disinteresse dimostrato da quella Trump, la Casa Bianca sembra puntare ad un rafforzamento delle relazioni con il Kenya puntando sul presidente William Ruto, invitato a intervenire al Congresso degli Stati Uniti il prossimo 23 maggio in occasione del 60esimo anniversario dei rapporti tra i due paesi.
Alla fine di settembre del 2023, in occasione della visita a Nairobi del segretario alla Difesa Floyd Austin, gli Stati Uniti hanno siglato con il Kenya un accordo di cooperazione che prevede l’addestramento dei soldati delle Forze di difesa del Kenya (Kdf) ed un programma di assistenza finanziaria e tecnica nei prossimi cinque anni. «Il governo degli Stati Uniti apprezza profondamente la nostra partnership con il Kenya nel contrastare Al Shabaab ed è grato al Kenya per la sua leadership nell’affrontare le sfide alla sicurezza nella regione e nel mondo» ha affermato Austin nel corso di una conferenza stampa.
Nella base costiera di Manda Bay il Kenya ospita già un certo numero di militare statunitensi, e Washington spera che il paese possa diventare presto un hub del proprio schieramento militare nell’area.
Il premier senegalese: “via le truppe francesi”
Se Washington sembra aggrapparsi ad alcuni appigli per mantenere la sua presenza militare in Africa, il declino di quella francese sembra al momento inesorabile. Dopo l’estromissione dal Mali e poi dal Niger, lo schieramento militari di Parigi sembra vacillare ora anche in Senegal dopo che il nuovo premier Ousmane Sonko ne ha contestato la legittimità. «A più di sessant’anni dalla nostra indipendenza, dobbiamo interrogarci sulle ragioni per cui l’esercito francese, ad esempio, beneficia ancora di numerose basi militari nei nostri Paesi, e sull’impatto di questa presenza sulla nostra sovranità nazionale e sulla nostra autonomia strategica» ha dichiarato il capo del governo, considerato il mentore del neo-eletto presidente Bassirou Diomaye Faye, insieme al quale è stato scarcerato grazie ad un’amnistia concessa dall’ex presidente Macky Sall a poche settimane dalle elezioni generali del 24 marzo scorso. Le dichiarazioni di Sonko sono state pronunciate nel corso di una conferenza stampa congiunta tenuta con il leader della sinistra francese, Jean-Luc Melenchon, in visita a Dakar.
Pur esprimendo «il desiderio del Senegal di avere il pieno controllo, incompatibile con la presenza duratura di basi militari straniere», il premier senegalese ha affermato di voler comunque mantenere alcuni degli accordi di cooperazione militare esistenti con la Francia. Ma le sue parole sono state inequivocabili: «Possiamo stipulare accordi di difesa senza che questo giustifichi che un terzo della regione di Dakar sia oggi occupata da guarnigioni straniere». Sonko, esponente delle correnti nazionaliste e pan-africaniste, ha anche affermato di voler rafforzare i legami con Mali, Burkina Faso e Niger.
Attualmente in Senegal sono dispiegati 350 militari francesi, 260 dei quali stabilmente. Presenti nel Paese dal 2011, le truppe si occupano prevalentemente della formazione dei soldati provenienti dai Paesi della regione. La presenza francese è concentrata nella zona della capitale Dakar, e in particolare nel campo intitolato al colonnello Frederic Geille, a Ouakam, e in quello dedicato al contrammiraglio Protet, situato nel porto militare della capitale. Un piccolo distaccamento di Parigi si trova anche nell’area dell’aeroporto militare “Leopold Sedar Senghor” di Dakar.
Parigi rassegnata ad un diminuzione della sua influenza
Nel tentativo di correre ai ripari, il governo francese sta cercando di accordarsi con Washington per mantenere un piccolo contingente nelle installazioni militari africane di Washington. L’ipotesi – ha spiegato a marzo il capo di Stato maggiore francese, Thierry Burkhard – permetterebbe di «ridurre la nostra visibilità mantenendo l’impronta minima necessaria per mantenere aperto il nostro accesso» al territorio.
Emmanuel Macron sarebbe ormai rassegnato ad un’ulteriore riduzione dello schieramento francese in Africa nei prossimi anni – ad eccezione di Gibuti – ed avrebbe incaricato l’ex ministro Jean-Marie Bockel, appena nominato inviato personale del presidente nel continente, di discutere con i leader africani le nuove forme della presenza militare di Parigi nei loro paesi.
Al momento, le truppe francesi sono ufficialmente presenti in quattro diverse basi: in Senegal con 350 unità, in Costa d’Avorio con 600, in Gabon con 400 ed in Ciad con più di 1000. A Gibuti, poi, sono schierati ben 1500 soldati. Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive anche di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con Pagine Esteri, il Manifesto, El Salto Diario e Berria