di Marco Santopadre*

Pagine Esteri, 23 gennaio 2025 – Il repentino crollo del regime di Bashar Assad in Siria ad opera delle milizie islamiste di Hayat Tahrir al-Sham (provenienti da Al Qaeda e dallo Stato Islamico, sostenute dalla Turchia e da alcune petromonarchie) ha posto la Russia di fronte all’urgente necessità di riconfigurare il proprio schieramento militare allo scopo di non perdere il presidio nel Mediterraneo e la conseguente proiezione nel continente africano.

Il massiccio intervento militare russo del 2015 aveva impedito che le fazioni fondamentaliste avessero la meglio sulle forze governative e su quelle inviate dal cosiddetto “asse della resistenza” (Iran, Hezbollah, milizie sciite irachene), ottenendo in cambio l’ampliamento della base aerea di Khmeimim e della base navale di Tartus – concesse da Hafez Assad nel 1971 – fondamentali per l’invio delle armi e dei militari di Mosca nel Corno d’Africa e nel Sahel.

Ma la vittoria, in Siria, degli islamisti guidati da Ahmed al-Sharaa – che la Federazione Russia non ha voluto o saputo impedire – ha rimesso tutto in discussione. Il nuovo regime siriano e i suoi sponsor, certamente ostili alla Russia così come all’Iran, per ora stanno lanciando segnali discordanti sulla continuazione della presenza militare russa nel paese. Il nuovo leader, finora noto con il nome di battaglia di Abu Mohammad Al Jolani, ha lanciato messaggi distensivi e pubblicamente non ha mai chiesto la restituzione delle basi di Khmeimim e Tartus.

Al tempo stesso però Damasco ha bloccato l’importazione delle merci russe, insieme a quelle israeliane e iraniane, e non sono mancati gesti ostili nei confronti dei contingenti militari di Mosca che nelle scorse settimane hanno rapidamente abbandonato varie installazioni sparse nel paese per tornare in patria o raggiungere le due basi principali sulla costa mediterranea.

Il nuovo regime siriano e i suoi sponsor principali potrebbero decidere di continuare a permettere a Mosca di mantenere nel paese una qualche presenza militare, per controbilanciare l’occupazione di parti del proprio territorio da parte degli statunitensi nel nord-est e di Israele nel Golan. Del resto la Turchia, che occupa direttamente e indirettamente una lunga fascia di territorio nel nord della Siria e rappresenta il principale sostenitore di Hayat Tahrir al-Sham, intrattiene con Mosca un complicato rapporto di alleanza/competizione, e potrebbe consentire ai russi la continuazione della propria presenza militare nel paese in cambio di contropartite di vario genere.

Ma nell’incertezza, Mosca non può rischiare di perdere, insieme alle basi siriane, anche la possibilità di proiettare la propria potenza nel continente che reputa il più promettente per l’aumento della propria influenza militare e politica.

Per evitare contraccolpi nel Mediterraneo e di essere tagliata fuori dai paesi africani in cui negli ultimi anni è riuscita a stabilire una consistente presenza militare – dal Mali al Niger, dal Sudan al Burkina Faso alla Repubblica Centrafricana – Mosca ha deciso di ridislocare una parte importante del proprio schieramento militare, puntando sulla divisione della Libia e sulla forte relazione instaurata dal 2017 con il generale Khalifa Haftar, il padrone della Cirenaica.

Nelle ultime settimane i trasferimenti di attrezzature militari verso il porto di Tobruk, nella Libia orientale – risalenti già al febbraio e all’aprile dell’anno scorso – sarebbero notevolmente aumentati dopo la fuga di Assad a Mosca. Vari osservatori militari hanno segnalato l’arrivo a Tobruk, dalle basi siriane, di vari sistemi radar e di difesa russi, comprese alcune batterie antiaeree S-300 ed S-400. Anche alcuni caccia e cacciabombardieri sarebbero stati spostati dalla Siria alla Libia, nelle basi di Al Jufra (nel centro del paese), di Al Brak al Shati (nel Fezzan, a sud) e in quella di Al Qurdabiya, vicino a Sirte (centro-nord).

I cargo Antonov e Ilyushin avrebbero poi scaricato nella base di al-Khadim, vicino a Bengasi, una gran quantità di armi ed elicotteri da ricognizione e da combattimento provenienti dalla Siria ma anche dalla Bielorussia.
La Russia punterebbe a ottenere da Haftar la concessione di installazione portuali in grado di ospitare una flotta pari a quella finora dislocata a Tartus e secondo diversi osservatori starebbe operando forti pressioni per potersi insediare definitivamente nell’ex base aerea libica di Matan As Sarra, da tempo abbandonata prima che Mosca iniziasse a utilizzarla perché strategica, situata com’è al confine con Ciad e Sudan e in grado di consentire la proiezione in tutta l’Africa subsahariana.

In Libia la Federazione Russa avrebbe inviato finora circa 2000 uomini, tra militari e membri del cosiddetto Africa Corps, creato a partire dalla compagnia militare privata Wagner dopo la ribellione e la morte del fondatore Evgenij Prigozin. Il rafforzamento di Mosca in Libia rappresenterebbe un problema significativo per l’Alleanza Atlantica, portando le forze russe più vicine ai membri europei della Nato e permettendo alla Federazione Russa un aumento della propria influenza in Africa.

Ma l’esito del tentativo russo non è scontato. Certamente Haftar e il suo Esercito Nazionale Libico, che controllano la Cirenaica, potrebbero uscire rafforzati dall’aumento dell’insediamento militare di Mosca nel proprio territorio. Se l’uomo forte di Bengasi è finora riuscito a tenere testa al rivale “Governo di Unità Nazionale” guidato dal Primo Ministro Abdul Hamid Dbeibah, insediato a Tripoli e sostenuto dalle truppe della Turchia e da alcuni paesi occidentali, lo deve soprattutto alle armi, ai consiglieri militari e all’Africa Corps. Ma Haftar, che intrattiene ottime relazioni anche con Egitto ed Emirati Arabi Uniti e viene corteggiato da Erdogan, potrebbe giudicare troppo invadente la richiesta russa di creare in Cirenaica un hub navale ed aereo simile a quello posseduto finora in Siria.

La dislocazione delle truppe russe in Africa

In attesa di capire se riuscirà a ottenere una base navale sulla costa del Sudan – dove nell’ultimo anno la Russia ha sostenuto prima i ribelli delle Forze di Supporto Rapido per poi tornare ad appoggiare, seppur tiepidamente, le forze regolari – Mosca ha intanto inviato nelle scorse settimane un contingente militare a Bamako, la capitale del Mali, paese in cui la Russia ha di fatto sostituito la Francia come forza di contrasto alla ribellione jihadista. Secondo gli osservatori militari, a Bamako sarebbero arrivati un centinaio di mezzi militari tra cui una sessantina di carri armati, blindati, mezzi della contraerea e unità di supporto logistico.

Armi e uomini non sarebbero arrivati, in questo caso, dalla Siria, ma avrebbero raggiunto il porto di Conakry, in Guinea, provenienti direttamente dalla base di Murmansk, nell’artico russo.

Evidentemente la Russia intende approfondire da subito la propria presa sui paesi dell’Africa Subsahariana, dove in cambio dell’assistenza militare ai regimi locali – spesso frutto di altrettanti golpe militari – e del supporto alla lotta contro le milizie jihadiste ottiene lo sfruttamento a condizioni molto vantaggiose delle risorse naturali e dei giacimenti minerari locali (in particolare oro, uranio e petrolio).

La Federazione Russa ha una impellente necessità di dimostrare ai governi africani “assistiti” che la sua proiezione militare e la sua capacità operativa in Africa non sono state scalfite dal fiasco siriano, difendendo e riaffermando la propria immagine di potenza globale.
Proprio il risolutivo intervento militare russo a sostegno di Assad nel 2015 aveva convinto molti responsabili politici, economici e militari africani dell’opportunità di sollecitare l’aiuto di Mosca per contrarrestare l’insorgenza jihadista, diminuire l’influenza di Stati Uniti e Francia e contribuire alla realizzazione di infrastrutture moderne.

Ma il rovescio siriano e l’incapacità di sconfiggere i gruppi islamisti – che anzi in Mali e in altre aree del Sahel stanno riprendendo piede infliggendo pesanti perdite alle truppe regolari e allo stesso Africa Corps russo – rischiano di compromettere l’immagine di Mosca e di allentare le relazioni tra le giunte militari e la Federazione Russa. D’altronde, dal punto di vista economico, l’apporto russo in Africa è ancora relativo, appena 20 miliardi di euro di interscambi commerciali annui.

Negli ultimi mesi, alcuni governi africani hanno cominciato ad alzare il prezzo nei confronti delle richieste di Mosca in campo economico, intenzionati probabilmente a tessere alleanze plurime per non legarsi eccessivamente ad una sola potenza internazionale e ad ottenere così maggiori vantaggi vendendo ciò che possono offrire al miglior offerente. A beneficiare della spinta alla diversificazione da parte di alcuni regimi africani sarebbe soprattutto la Turchia, che dopo lo scacco siriano sembra consolidare gradualmente la propria influenza anche in Africa. A novembre un video ha mostrato dei presunti addestratori turchi che a Bamako coordinavano delle esercitazioni delle truppe maliane, mentre a dicembre le forze armate governative hanno utilizzato un drone turco Bayraktar per eliminare alcuni ribelli nel nord del paese. Pagine Esteri

* Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive anche di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con Pagine Esteri, il Manifesto, El Salto Diario e Berria