Nella foto di Michele Giorgio, il sito di Sebastia in Cisgiordania

L’annessione della Cisgiordania a Israele è cominciata. E il punto di partenza sono i siti archeologici palestinesi. È stato evidente ieri al Dan Hotel di Gerusalemme dove, nell’ambito della conferenza «Archeology and Site Conservation of Judea e Samaria», archeologi, docenti universitari, studiosi israeliani e stranieri e funzionari dell’Autorità israeliana per le antichità, si sono affannati, e lo stesso faranno oggi, a spiegare e raccontare millenni di patrimonio storico e archeologico di questa terra. Con un tratto comune: gli interventi e le immagini mostrate sullo schermo nella sala della conferenza hanno dato per scontata la piena «sovranità» dello Stato ebraico su tutti i siti della Cisgiordania che i partecipanti hanno chiamato «Giudea e Samaria», i nomi biblici abitualmente usati dalla destra israeliana per indicare questa porzione di Territori palestinesi occupati.

In linea con questo indirizzo, le colonie israeliane costruite dopo il 1967 in violazione delle risoluzioni internazionali, sono state presentate come comunità legittime di una storia antica. Un particolare accento ieri è stato messo sulla necessità di esplorare le colline a sud di Hebron, nella Cisgiordania meridionale. Sulle mappe non c’erano i nomi dei villaggi palestinesi a rischio di demolizione nella zona di Mesafer Yatta, dichiarata unilateralmente area di addestramento dall’esercito israeliano e dove l’11 febbraio sono state ridotte in pietre 11 abitazioni dichiarate «illegali». La distruzione completa rischia anche Susia. Sulle mappe mostrate dalla conferenza invece erano visibili i nomi degli insediamenti coloniali.

La conferenza «Archeology and Site Conservation of Judea e Samaria» a Gerusalemme (foto di Michele Giorgio)

Nelle pause, tra un caffè e un biscotto, i partecipanti alla «Archeology and Site Conservation of Judea e Samaria» hanno continuato a discutere su come «preservare» il patrimonio archeologico di Israele includendo in esso i siti che, come stabiliscono gli Accordi di Oslo del 1993, si trovano nella Area B della Cisgiordania sotto il controllo dell’Autorità nazionale palestinese (Anp). La questione dei siti archeologici parte da lontano. Prima della nascita di Israele, era usata per accreditare le rivendicazioni del movimento sionista sulla Palestina. Importanti leader sionisti, come il celebre Moshe Dayan, si autoproclamarono “archeologi”. Poi sono venuti i coloni, che dopo il 1967 hanno utilizzato l’archeologia per attirare turisti, espropriare e controllare terre palestinesi in Cisgiordania, a Gaza (fino al 2005) e a Gerusalemme Est dove è sorta la Città di David nel quartiere palestinese di Silwan. Poi sono partiti i progetti di Shiloh, Susiya e Sebastia e molto di più. Sono circa 6mila i luoghi di interesse storico e archeologico in Cisgiordania, quasi tutti nelle Aree B e C (quest’ultima, il 60% del territorio, è stata assegnata dalle intese di Oslo, fino a un accordo definitivo da negoziare, al controllo militare israeliano).

Lo scorso luglio è giunto alla Knesset un disegno di legge con presunte finalità storiche e culturali presentato dal deputato del Likud, Amit Halevi, in via di approvazione, volto ad estendere la legge israeliana alla intera Cisgiordania in modo che oltre al Kamat, l’ufficiale di stato maggiore per l’archeologia, anche l’Autorità israeliana per le antichità diventi responsabile per i siti archeologici, anche nella Area B palestinese. «Queste parti sono piene di storia ebraica e non vi è alcun collegamento storico o di altro tipo con l’Autorità nazionale palestinese. Pertanto, la discussione sullo status delle aree di Giudea e Samaria non ha alcuna attinenza con la responsabilità di Israele per i reperti archeologici che appartengono al suo popolo», si afferma nei documenti allegati al disegno di legge di Halevi.

«Si tratta di una aperta violazione della IV Convenzione di Ginevra e dei diritti del popolo palestinese sul suo patrimonio storico e archeologico» dice al manifesto il professore Alon Arad, direttore di Emek Shaveh, una associazione che chiede la tutela della storia, della cultura e del patrimonio di palestinesi ed ebrei. «Il testo della legge che gioca con le parole» spiega Arad «allo scopo di evitare condanne internazionali, Halevi indica la Cisgiordania come l’‘Area’ e punta all’allargamento territoriale delle competenze dell’Amministrazione civile israeliana (che cura per conto dell’esercito gli affari civili, ndr) nell’Area B e non più, come avviene oggi, solo nell’Area C».

Cosa accadrà sul terreno quando la legge sarà applicata sul terreno al momento è prevedibile solo in parte. Arad sostiene che aprirà la strada «a espulsioni e demolizioni in centri abitati palestinesi». Le autorità israeliane, aggiunge, «con il pretesto di proteggere aree di interesse storico-archeologico potrebbero ordinare la distruzione delle case vicine ad esse e costringere gli abitanti ad andare via. Emek Shaveh per questo chiede il rispetto da parte di Israele della legge internazionale e delle decisioni della Corte internazionale di Giustizia».

Sebastia, foto di Michele Giorgio

A rischio sarà senza dubbio il villaggio di Sebastia e il suo parco archeologico, già oggetto di frequenti scorribande dei coloni degli insediamenti vicini che reclamano il controllo delle antichità ora sotto la supervisione dell’Anp. Di recente si sono registrati scontri e almeno un giovane palestinese è stato ucciso dal fuoco dei soldati giunti a proteggere i coloni. «Quello che accade a Sebastia è una ulteriore dimostrazione che il problema di fondo in questa regione è l’accaparramento delle risorse da parte del più forte, il tentativo di disumanizzare la comunità locale che non avrebbe la capacità di comprendere e conservare. Cancellare il legame dei palestinesi con il passato significa negare il loro diritto al futuro. Nel sito archeologico di Sebastia, come nelle librerie di Gerusalemme, evidentemente deve restare solo la narrazione del più forte, che non ha ragione e quindi si impone con la violenza», ci dice Carla Benelli, storica dell’arte che per anni ha collaborato con l’archeologo e architetto palestinese Osama Hamdan, scomparso un anno fa, che ha dedicato anni al recupero e alla valorizzazione di Sebastia e del suo eccezionale patrimonio storico.

Nella società civile palestinese l’allarme è forte, mentre l’Anp tace. L’Associazione palestinese di archeologia (Apa) condanna fermamente la convocazione della conferenza al Dan Hotel a Gerusalemme e l’uso delle parole Giudea e Samaria per indicare la Cisgiordania. «Questa terminologia ignora le realtà storiche e geografiche del nostro popolo in Cisgiordania e cerca di cancellare l’identità palestinese» afferma. Sottolinea che «I progetti di ricerca presentati alla conferenza si basano su scavi archeologici condotti nei Territori occupati, violando la Convenzione dell’Aja del 1954 e i suoi protocolli, nonché le Raccomandazioni di Nuova Delhi del 1956». Questi quadri giuridici, ricorda l’Apa, impongono alla potenza occupante «di proteggere i siti archeologici del popolo occupato e proibisce lo sfruttamento per scopi politici o ideologici». La conferenza a Gerusalemme, conclude, «costituisce una palese violazione del diritto internazionale e dell’etica accademica…Boicottarla rappresenta una posizione di principio contro la cancellazione del nostro patrimonio culturale e l’espropriazione del popolo palestinese».

Questo articolo è stato pubblicato in origine dal quotidiano Il Manifesto 

https://ilmanifesto.it/cisgiordania-lannessione-parte-dai-siti-archeologici