Si è concluso a Tegucigalpa, in Honduras, il IX vertice della Celac, la Comunità degli Stati americani e caraibici, composta da 33 paesi delle Americhe, a eccezione di Stati uniti e Canada. Un organismo che racchiude oltre 20 milioni di chilometri quadrati di estensione territoriale, più di 600 milioni di abitanti, immense ricchezze, e un gigantesco potenziale agricolo e industriale: nel continente, però, più diseguale del pianeta quanto a distribuzione della ricchezza.
E se, quando si è creata la Celac, aver riunito una così grande varietà di governi e interessi poteva sembrare una scommessa promettente e visionaria, oggi quella scommessa appare tanto necessaria quanto ardua, considerando il numero dei paesi passati a destra (o traballanti) e le politiche aggressive di Trump, che hanno pesato nell’incontro di Tegucigalpa. Il tycoon ha imposto dazi di almeno il 10% alla maggioranza dei paesi della regione, con tassi più elevati per il Venezuela (15%), per il Nicaragua (18%) e per la Guyana (del 38%), e prevede dazi del 25% per quei governi che continuino a richiedere le missioni mediche cubane. Per il Messico, principale socio commerciale insieme al Canada, i dazi sono del 25%.
E ora, la pausa di 90 giorni annunciata da Trump, scatena ulteriormente la corsa a un negoziato diretto, a scapito di una visione comune. Inoltre, per quanto riguarda l’America latina, e più in generale i paesi del Sud globale, a complicare il cammino di quanti partecipano a alleanze alternative agli Usa (in primis i Brics), vi sono i dazi del 125% imposti dall’amministrazione Usa alla Cina, fonte di una infinità di prodotti che si commerciano in Nordamerica e nella regione latinoamericana, e le conseguenti ritorsioni annunciate da Pechino. A maggio di quest’anno, è prevista la IV Riunione ministeriale del foro Celac-Cina.
Durante la presidenza pro tempore dell’Honduras, oltreché con la Cina, si sono svolte sei riunioni extra-regionali con l’Unione Africana, l’Unione europea, con la Turchia, con i paesi arabi del Golfo, e con l’India. È già stato fissato per il 9 e il 10 novembre prossimi, anche il vertice Celac-Ue. I rappresentanti dei 27 Stati membri dell’Unione europea incontreranno quelli dei 33 paesi latinoamericani e caraibici a Santa Marta, in Colombia, paese a cui l’Honduras ha trasferito la presidenza pro-tempore della Celac per i prossimi due anni.
E il presidente Gustavo Petro, presente a Tegugicalpa, è fautore di una politica di riequilibrio tra nord e sud, che favorisca misure strutturali a favore dell’ambiente e della giustizia sociale, ma che tende a smarcarsi dal profilo di quei paesi che cercano di far valere i principi fondativi della Comunità latinoamericana e caraibica. Sulla stessa linea di Petro sembra porsi il brasiliano Lula da Silva, anch’egli fra i capi di stato presenti, tirato per la giacca dal precario equilibrio di poteri interno alla sua amministrazione e dal ruolo che il suo paese assume, attualmente, all’interno di altri organismi multilaterali, di cui ha la presidenza pro-tempore (Brics e Mercosur).
Dopo aver assunto per la terza volta la presidenza del paese, il 1° gennaio del 2023, il Brasile ha fatto ritorno alla Celac, ha cercato di riattivare la Unasur in un vertice celebrato a Brasilia e, alla fine dello stesso anno, ha concluso il periodo biennale del Brasile al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite. Nel 2024, ha assunto la presidenza rotatoria del G-20 e ne ha ospitato il vertice a Rio de Janeiro, così come, a novembre del 2025, Belém do Pará ospiterà la 30ª conferenza delle parti (COP30) delle Nazioni unite sul Cambio Climatico.
Un multilateralismo “pragmatico”, reso difficile dalla congiuntura internazionale, marcata dal conflitto in Ucraina e dal genocidio in Palestina; e che non ha mancato di suscitare frizioni, anche fra gli alleati, come nel caso dell’opposizione all’ingresso del Venezuela nei Brics.
Tensioni che hanno attraversato anche il vertice Celac. Per questo, alla dichiarazione finale prevista per consenso sono mancati tre voti, motivati in maniera opposta da Argentina e Paraguay da una parte, e dal Nicaragua dall’altra. La presidente honduregna, Xiomara Castro, aveva però già sventolato il testo approvato dai 30 rappresentanti, dichiarando che il consenso c’era e per questo attirandosi le critiche dell’opposizione.
Per Argentina e Paraguay, i cui governi sono alleati di Trump, i riferimenti di condanna alle politiche del presidente nordamericano contenuti nella dichiarazione finale in 8 punti, per quanto sfumati, sono risultati indigeribili. I due governi, d’altronde, prevedono a breve di firmare un trattato di libero commercio con Washington nel quadro del Mercosur, a cui si oppone Lula.
L’intervento letto con acredine e arroganza da Salvador Nasralla, rappresentante del Salvador di Bukele, fan di Trump e della sua politica di deportazione dei migranti, ha mostrato peraltro chiaramente il peso del “sabotaggio” di cui ha parlato il Nicaragua nel documento che motiva il rifiuto a firmare la dichiarazione finale: “La famosa Celac, dicono che è un vertice dell’integrazione – ha urlato Nasralla – però vengono solo i compari di Mel Zelaya (ex presidente dell’Honduras, ndr): quelli che imprigionano, censurano e ammazzano la democrazia. Ma non ci spaventano e non ci fermeranno”.
Il Nicaragua, rappresentato dal ministro degli Esteri, Valdrack Jaentschke, nel documento allegato, ha denunciato le pressioni esercitate per annacquare la dichiarazione finale, e per snaturare i principi fondativi dell’organismo, che implicano un diverso orientamento nel modello di sviluppo, e nella nozione di pace con giustizia sociale.
“Invitiamo la nostra Celac – ha scritto il Nicaragua – a convocare una Sessione Urgente e Permanente per analizzare le gravissime conseguenze delle politiche tariffarie decretate dagli Stati Uniti d’America contro il mondo e a concordare azioni e misure comuni per affrontare le loro conseguenze, dando priorità ai diritti dei nostri popoli e in particolare alle lotte contro la povertà e per un’esistenza dignitosa e di benessere.
Giungiamo a questo Vertice seguendo la nostra tradizione di invocare Unità, Solidarietà e Pace come condizioni per raggiungere il benessere a cui hanno diritto i nostri popoli.
Il benessere va inteso come la sicurezza delle persone, delle famiglie e delle comunità, come sicurezza alimentare, in linea con l’eliminazione della fame, della povertà e della disuguaglianza. Sicurezza di un equo accesso alla salute, all’istruzione e al lavoro”.
Il Nicaragua ha poi espresso il rifiuto del bloqueo a Cuba e delle sanzioni al Venezuela e alla rivoluzione sandinista, la solidarietà alla Palestina, e il sostegno ad Haiti e al suo diritto al risarcimento storico da parte del colonialismo francese: “Non siamo qui per accettare un documento solo per dire che lo accettiamo – ha scritto ancora Managua -. Una dichiarazione della Celac, nelle condizioni minime, deve continuare a difendere l’uguaglianza sovrana degli Stati, il diritto all’autodeterminazione, l’integrità territoriale e la non ingerenza negli affari interni di ciascun Paese.
Dobbiamo riaffermare il nostro impegno nel difendere la sovranità e il diritto di ogni Stato a definire il proprio quadro istituzionale e normativo, libero da minacce, aggressioni e misure coercitive unilaterali.
Dobbiamo continuare ad esprimere il nostro fermo rifiuto alle aggressioni e al blocco imposti dagli Stati Uniti dal 1962 contro la Repubblica sorella di Cuba.
La dichiarazione finale non può esimersi dall’esprimere la sua solidarietà al Popolo Fratello e al Governo Bolivariano del Venezuela nella loro lotta per la dignità e la difesa del loro popolo contro le aggressioni esterne. Non possiamo non denunciare tutte le forme di aggressione e le misure coercitive unilaterali contro i nostri popoli e i nostri governi. Dobbiamo esprimere l’incrollabile solidarietà di questa regione con il popolo palestinese e denunciare gli orrendi crimini contro di esso.
Una dichiarazione di questo Vertice deve affrontare le gravissime conseguenze delle politiche tariffarie decretate dagli Stati Uniti d’America contro il mondo e concordare azioni e misure comuni per affrontarne le conseguenze.
Una dichiarazione della Celac deve includere la solidarietà con le sorelle e i fratelli che hanno dovuto emigrare fuori dai loro paesi e deve esigere un trattamento dignitoso per coloro che tornano nelle loro terre d’origine.
Deve riconoscere la legittima richiesta dei popoli fratelli dei Caraibi di riparazione per i crimini del colonialismo e della schiavitù, respingere le estorsioni nei loro confronti ed esprimere inequivocabile solidarietà con il popolo fratello di Haiti, senza interventi esterni.
Molti di questi elementi sono stati ampiamente affrontati dalla maggior parte delle delegazioni, ma non sono stati inclusi nella presente proposta di Dichiarazione”.
Temi, questi ultimi, comunque evocati dalla dichiarazione finale, insieme all’auspicio che “una persona appartenente a uno Stato dell’America latina e dei Caraibi occupi la Segreteria Generale dell’Organizzazione delle Nazioni unite”: una persona, non una donna, come avrebbe voluto il Venezuela e come aveva proposto Lula. La dichiarazione sottolinea, che dei nove Segretari generali che ha avuto l’Onu finora, solo uno proveniva da uno Stato della regione, e ricorda che il posto non è mai stato occupato da una donna.
Ricorda anche la necessità di difendere il fatto che la Celac è “zona di pace”. Un concetto sottolineato dall’intervento via web del presidente venezuelano, Nicolas Maduro, assente dal vertice “per motivi di sicurezza”, in un momento di tensione nel paese: sia per il rinnovarsi dei piani destabilizzanti dell’opposizione alleata di Trump, alla vigilia delle elezioni di fine aprile e fine maggio, sia per le tensioni con la Guyana nella zona contesa dell’Essequibo, dove agiscono, illegalmente, multinazionali petrolifere Usa, come la ExxonMobil.
Quando venne attivata l’alleanza (il 3 dicembre del 2011, a Caracas, su proposta di Fidel Castro e di Hugo Chávez), si era al culmine di un processo di convergenza maturato negli anni e prefigurato in Messico, il 23 febbraio del 2010. Allora, sull’onda della vittoria elettorale di Chávez in Venezuela e delle lotte di massa contro il neoliberismo degli anni Novanta, in gran parte dell’America latina e dei Caraibi stavano andando al governo partiti di sinistra, seppur di diverse tradizioni e progetti ideologici, tanto da introdurre nell’analisi la categoria di “rinascimento latinoamericano”.
Avanzare nell’unità e l’integrazione politica, economica, sociale e culturale del continente; promuovere lo sviluppo socio-economico e la pace; rafforzare la partecipazione della regione nei processi di negoziazione multilaterale; intensificare il dialogo politico fra gli Stati; concordare posizioni regionali di fronte alle riunioni di portata globale – punti centrali avanzati dalla Celac e tutt’ora vigenti -, non sembravano meri pronunciamenti. Tanto che, nonostante le decisioni dell’organismo venissero prese per consenso (e così è a tutt’oggi), governi non certo progressisti e amanti della pace com’era quello di Alvaro Uribe in Colombia, si sentirono obbligati a sottoscrivere, nel vertice dell’Avana del 2014, il documento conclusivo con cui si dichiarava la Celac “zona di pace”.
Nel vertice di Tegucigalpa, invece, il consenso pieno si è espresso solo per eleggere la Colombia, rappresentata dal presidente Gustavo Petro, alla prossima presidenza dell’organismo, per il periodo 2025-2026. Tuttavia, che l’esistenza dell’organismo costituisca ancora una forte spina nel fianco per l’imperialismo Usa è testimoniato anche dall’articolo del Diario de las Americas, evidentemente già scritto anche se datato dell’inizio del vertice, che definiva la Celac praticamente un concentrato di chiacchiere senza costrutto, e un “blocco alla deriva in una palude di narcotraffico”.
“La Celac – ha dichiarato la presidente honduregna, Xiomara Castro – non è un’organizzazione perfetta, però è la nostra. Nasce da un sogno, da un ideale, dall’utopia dei nostri liberatori e antenati: l’integrazione dell’America latina e dei Caraibi di fronte al colonialismo delle grandi potenze”.