Una notte di sangue sulle montagne del Kashmir ha riacceso un conflitto mai sopito, trascinando India e Pakistan sull’orlo di una nuova escalation. Ventisei persone uccise in un attacco armato contro civili, per lo più turisti indiani, il peggiore degli ultimi anni, hanno scatenato una reazione a catena di misure drastiche, accuse incrociate, rappresaglie e minacce.

L’attentato, rivendicato dal gruppo “Resistenza del Kashmir”, ha colpito una delle zone più militarizzate del mondo, da oltre trent’anni attraversata da una ribellione armata contro l’occupazione di New Dehli. L’India ha immediatamente puntato il dito contro il Pakistan, accusandolo di connessioni con i responsabili, sebbene senza fornire prove concrete. Islamabad ha rigettato ogni addebito, condannando l’attacco e parlando di una “strumentalizzazione” da parte del governo indiano per finalità politiche interne.

La risposta di Nuova Delhi non si è fatta attendere: tutti i visti per cittadini pakistani sono stati revocati, con obbligo di rientro nel loro paese prima del 27 aprile per quelli già presenti sul territorio indiano. È stata inoltre ordinata la chiusura dell’unico valico terrestre funzionante, la riduzione del personale diplomatico nelle ambasciate e, in una mossa dirompente, la sospensione del trattato di condivisione delle acque dell’Indo, firmato nel 1960 con la mediazione della Banca Mondiale. Un accordo che, pur nei momenti di massima tensione, aveva resistito a guerre e conflitti armati, garantendo al Pakistan un accesso vitale al sistema fluviale che alimenta la sua agricoltura.

Islamabad ha risposto con la chiusura del suo spazio aereo alle compagnie indiane, la sospensione degli scambi commerciali e un avvertimento: ogni tentativo di bloccare o deviare il flusso delle acque sarà considerato un “atto di guerra”. Il Comitato per la Sicurezza Nazionale pakistano ha parlato di “misure belligeranti” indiane e ha promesso di difendere la sovranità e la dignità nazionale “con tutta la forza disponibile”. Il Pakistan ha sospeso tutti i trattati bilaterali, compreso quello di Simla del 1972 che pose fine alla guerra tra i due Paesi.

Dietro le quinte, si muovono logiche geopolitiche e spinte elettorali. In India, il primo ministro nazionalista e conservatore Narendra Modi ha colto l’occasione per rinsaldare il proprio consenso. In un comizio ha promesso di inseguire “ogni terrorista e mandante fino ai confini del mondo”, utilizzando un linguaggio muscolare che riecheggia le retoriche della forza tipiche del nazionalismo hindu. Il suo governo, da tempo accusato di soffiare sul fuoco del conflitto in Kashmir per motivi di propaganda interna, sembra orientato verso una linea d’azione dura. Il ministro della Difesa Rajnath Singh ha lasciato intendere che l’opzione militare non è esclusa.

La tensione è palpabile, e non solo nei palazzi del potere. In Pakistan, le manifestazioni davanti all’Alto commissariato indiano a Islamabad riflettono un’opinione pubblica sempre più stanca di essere il bersaglio di accuse cicliche da parte dell’India. In Kashmir, la paura è tornata a dominare la quotidianità; non solo per l’attentato — che ha colpito turisti e civili  — ma per la possibile risposta militare e per le sue conseguenze.

La popolazione kashmira, già duramente repressa dopo l’abolizione dello status speciale della regione nel 2019, esprime rabbia e frustrazione, ma anche timore per un futuro che si fa sempre più incerto. La revoca dell’autonomia, il controllo diretto di Nuova Delhi, le operazioni militari e la censura digitale hanno lasciato ferite profonde, e la nuova fiammata di violenza rischia di riaprirle.

Secondo gli analisti, l’India si trova ora a un bivio. Ashok Malik, ex consigliere politico del ministero degli esteri indiano, sostiene che “l’attacco ha innescato una reazione emotiva, ma anche una riflessione strategica: il trattato sull’Indo è una leva economica forte, ma l’opzione militare è concreta”. Parole che fanno eco alle valutazioni di Praveen Donthi dell’International Crisis Group: “Modi ha costruito una narrativa in cui il Pakistan è l’origine di tutti i mali in Kashmir. Ma questa narrazione offre poche vie d’uscita in caso di escalation. Se non si affrontano le vere radici del malcontento in Kashmir, il conflitto sarà destinato a perpetuarsi.”

Il rischio è che la spirale di accuse e contromisure sfoci in un ennesimo confronto armato. L’ultimo serio scontro tra India e Pakistan risale al 2019, quando un attacco suicida a Pulwama fu seguito da bombardamenti incrociati e dall’abbattimento di alcuni aerei. Anche allora si arrivò a un passo dalla guerra. Oggi, con le pressioni interne crescenti in entrambi i Paesi, il rischio che la politica cavalchi la rabbia popolare per fini nazionalistici appare più concreto che mai.

Il conflitto del Kashmir si trascina dal 1947, dalla nascita dell’India (a prevalenza induista) e del Pakistan (a prevalenza islamico) come Stati indipendenti dall’impero coloniale britannico e dall’adesione del principato di Jammu e Kashmir all’India, non riconosciuta dal Pakistan. Entrambi i Paesi rivendicano l’intera regione, divisa tra il Territorio indiano di Jammu e Kashmir e le entità amministrative pachistane di Azad Kashmir e Gilgit-Baltistan.

La tensione ha causato conflitti sanguinosi già nel 1947, del 1965 e del 1999. Quello del Kashmir non è solo un conflitto tra due Stati, ma anche interno all’India, esploso soprattutto a partire dal 1989, anno delle prime azioni dei guerriglieri indipendentisti. Si stima che dagli anni Ottanta, tra le azioni pachistane e la repressione indiana, siano morte in Kashmir almeno 40 mila persone, per la maggioranza civili.