di Silvia Casadei*

(le foto sono di Silvia Casadei)

La vita scorre normalmente a Dahieh, nonostante l’ultimo bombardamento del 27 aprile che ha colpito una tenda nella parte esterna del quartiere.

A., preferisce non pubblicare il suo nome per intero, abita a Dahieh da quando è nato, da 37 anni. È laureato in Scienze Politiche, ma per vivere fa il conducente di un piccolo share bus. Ha tre figli, uno nato da poche settimane. Come molte persone in Libano si trova a dover lavorare dalle 6:00 alle 23:00 per mantenere la famiglia e far fronte alle spese quotidiane.

Si trovava vicino al luogo dell’esplosione, il 27 aprile, tanto da riuscire a filmarla. Mi mostra il video mentre ci dirigiamo verso il quartiere. La dinamica di questo attacco è molto simile alle precedenti: Israele, attraverso i social, “avvisa” che avrà luogo un attacco nel quartiere, lasciando 30 minuti agli abitanti per cercare di dirigersi altrove, le numerose chat di WhatsApp degli abitanti di Dahieh ne diffondono poi la notizia, nel tentativo di evitare il coinvolgimento di civili.  Il 27 aprile sono stati inviati tre avvisi e, al quarto, l’attacco israeliano ha avuto luogo. Non ci sono state vittime, poiché la zona colpita era un deposito di strumenti usati per l’organizzazione di comizi.

 

Lo spazio è ora delimitato da militanti di Hezbollah (Partito di Dio) che stanno ripulendo l’area dai detriti e dai vetri degli edifici circostanti esplosi durante la deflagrazione. Le persone sono tornate alla vita di tutti i giorni, come se fosse diventato ormai “normale” allontanarsi di qualche isolato dalle proprie case, per poi farvi ritorno al termine degli attacchi, come se vi fosse un’abitudine nella normalità della guerra.

I vertici israeliani lanciano da mesi minacce di ridurre il Libano a un inferno, adottando verso il popolo libanese la medesima strategia usata contro i palestinesi. Una “alterigia omicida”, dicono i libanesi, propria di chi ambisce a ridisegnare i confini del Medio Oriente.

Nonostante una iniziale diffidenza, mi è stato permesso di vedere il luogo, ma senza poter scattare foto. Mi riferiscono che, per ora, è possibile solo ripulire e raccogliere i detriti, poiché il governo libanese impedisce la ricostruzione degli edifici abbattuti dai bombardamenti israeliani.

Anche nell’area in cui fu ucciso il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, nulla è stato ancora ricostruito: le macerie di sei palazzi, completamente rasi al suolo dalle 84 tonnellate di esplosivo sganciato dai caccia israeliani il 27 settembre 2024, vengono lentamente rimosse, il ferro viene raccolto dai bambini per poi essere venduto, per terra vi sono ancora gli oggetti che erano all’ interno delle case, gli effetti personali delle persone che sono rimaste vittime degli attacchi israeliani. Il luogo è spettrale, un grande cratere colmo di macerie. A. racconta che la potenza dell’esplosione fu tale da essere udita oltre Beirut, come un grande terremoto: “la terra ha tremato”, mi dice. Durante la nostra conversazione gli chiedo come sia stato possibile che gli israeliani siano riusciti a individuare, lo scorso settembre, il rifugio di Hassan Nasrallah, il leader di Hezbollah.

Una delle ricostruzioni che circola con insistenza qui in Libano parla di aerei britannici partiti da Cipro, dotati di tecnologie in grado di rilevare voci e suoni. Nasrallah si trovava in un bunker sotterraneo, collegato all’esterno da un sistema di filtrazione dell’aria: sarebbe stato proprio attraverso quei condotti che le onde sonore, amplificate, avrebbero permesso di localizzarlo. La popolazione dell’area, mi viene detto, non era a conoscenza della presenza del leader, e A. respinge con decisione l’ipotesi di un tradimento interno.

Sui pochi edifici ancora in piedi restano tracce visibili del conflitto: scritte in arabo vergate sui muri da combattenti iracheni arrivati in aiuto dopo i primi bombardamenti. Segni muti di una guerra che, in molti modi, continua a farsi sentire.

Daiheh è un grande quartiere, e le immagini di Nasrallah e dei martiri — dal generale Soleimani ai caduti della guerra libanese — invadono le strade, i vicoli e le pareti esterne delle case, accompagnate dalle bandiere gialle del Partito di Dio.

A. sottolinea che il governo libanese non sta facendo nulla per fermare gli attacchi israeliani, né nel quartiere né nel sud del Libano, anch’esso profondamente colpito, e questo nonostante Hezbollah abbia rispettato l’accordo per il cessate il fuoco sottoscritto in data 27 novembre 2024.

Il governo libanese, secondo A., mira, su pressione degli Stati Uniti, a smilitarizzare il partito nel tentativo di renderlo vulnerabile. Hezbollah, però, pur non essendo sostenuto da tutta la popolazione libanese, rappresenta una forza consolidata tra la gente. Questo radicamento, mi spiega, è il frutto della politica del partito verso il proprio popolo: un’azione incentrata sul supporto alle fasce più deboli, sull’assistenza alle famiglie dei martiri, e sulla costruzione di scuole e ospedali, il cui accesso gratuito garantisce istruzione e sanità anche alle fasce più deboli.

“Il mio governo,” mi dice, “oltre a sostenere la politica di  Israele e america che mira al disarmo di Hezbollah, vuole che tutte le immagini di Nasrallah vengano rimosse dalle strade.” Tuttavia, aggiunge con determinazione, “questo non potrà mai accadere. Per la gente di Dahieh, Nasrallah è stato il loro leader e ora è il loro martire nella resistenza contro l’entità sionista.”

“Ciò che mi irrita maggiormente,” mi spiega, “è il modo in cui l’informazione occidentale tende a rappresentare Nasrallah e Hezbollah esclusivamente come un’organizzazione terroristica”. Ci tiene a sottolineare: “Noi lottiamo per la nostra terra”, “non abbiamo paura di essere martiri perché la nostra dignità e il nostro onore vengono da Dio”.

Il concetto di “martirio” viene espresso anche da alcuni militanti che presidiano la tomba di Nasrallah, edificata all’interno del quartiere. Sono proprio questi militanti a spiegarmi che non hanno paura della morte, perché “nei nostri cuori il martirio ci avvicina a Dio: è la nostra storia e la nostra lotta”.

Il luogo di sepoltura del leader di Hezbollah è attualmente in fase di ampliamento e si trova alla fine di Qassem Soleimani Street. La tomba è bianca, semplice, e ricorda molto quella del generale Soleimani a Kerman. La data della morte è scritta in farsi e l’effige del leader è affissa alla parete. All’interno, tantissimi fedeli arrivano in pellegrinaggio, uomini donne e ragazzini che intonano canti all’interno del luogo di sepoltura. Gli stessi militanti mi riferiscono che, in futuro, verrà costruito un santuario che diventi meta di pellegrinaggio come quelli di Kerbala e Najaf in Iraq: “Accogliamo chiunque in questo luogo — mi dicono — perché vogliamo che diventi un simbolo, un simbolo della nostra resistenza. Perché la nostra resistenza, più che con le armi, è con l’anima”.

Chiedo ad A. se oggi, a Dahieh, le persone vivano nella paura. Lui, quasi schernendomi, mi sorride e mi risponde semplicemente con tono perentorio: “No, il nostro futuro comincerà quando Israele verrà distrutto”.

*Fotoreporter