testo e foto sono di Silvia Casadei
Il campo profughi di Yarmouk ha una storia importante, difficile da dimenticare, nata 77 anni fa, all’indomani della Nakba palestinese. Anche se ci troviamo in Siria, Yarmouk è in realtà una piccola Palestina: i primi profughi arrivarono nel 1948, Israele costrinse migliaia di famiglie ad abbandonare le proprie case e le proprie terre, senza possibilità di farvi ritorno.
Circa 700.000 palestinesi furono costretti a fuggire o vennero espulsi, sia prima, che durante la guerra arabo-israeliana del 1948, che seguì la fondazione dello Stato di Israele. Al termine del conflitto, Israele negò loro il diritto al ritorno e migliaia di famiglie furono costrette a ricostruire la propria vita altrove. Molte trovarono rifugio in Siria, e fu da questa “catastrofe”, (traduzione italiana del termine arabo Nakba), che ebbe inizio la storia del campo di Yarmouk, che divenne così la capitale della Diaspora palestinese.
Il nonno di H. si trasferì in Siria nei primi anni Cinquanta. La sua famiglia proveniva dal distretto di Safad, precisamente dal villaggio di Al-Ja’una, abbandonato a causa dei massacri compiuti dalle milizie sioniste dell’epoca, che resero impossibile e pericolosa la vita nel villaggio. H. è nato a Yarmouk, presso il Palestine Hospital, situato alla fine di Yarmouk Street. Oggi l’ospedale, così come la maggior parte delle infrastrutture, non esiste più: è stato distrutto dai bombardamenti durante la guerra siriana. H. viveva con il padre palestinese e la madre siriana in Loubeya Street, vicino a Abu Hashish Square, in una casa oggi inagibile. Come molti altri palestinesi, durante la guerra siriana fu costretto a fuggire e si trasferì a Damasco, dove vive tuttora in un dormitorio, lavorando e cercando di sopravvivere. H. è nato in Siria e non ha mai visto la Palestina, eppure parla della terra dei suoi avi con profondo rispetto e ammirazione, consapevole che forse non riuscirà mai a vederla e a recuperare le proprie origini, perché Israele non gli consentirà mai un ritorno.
H. conosce tutti, perché in queste strade ha vissuto la sua infanzia. A Yarmouk ha frequentato la scuola, che un tempo sorgeva nei pressi della Grande Moschea, e che oggi non è altro che un cumulo di macerie. Attualmente, l’unico punto di riferimento rimasto è un centro dell’UNRWA, che offre supporto medico gratuito alla popolazione. Camminare con H. è un piacere: nella devastazione, il sorriso delle persone riesce, per un momento, ad allontanare la tristezza che grava sul luogo. Gli abitanti lavorano con tenacia per ricostruire ciò che resta delle loro case, poiché per molti anni il governo non ha concesso le autorizzazioni per i lavori di recupero. Oggi, a quattordici anni dallo scoppio della guerra, alcuni abitanti stanno rientrando a Yarmouk. Fra questi c’è anche la zia di H., che ha acquistato una piccola casa all’ingresso del campo, nella zona che ha riportato meno ferite.
Camminando lungo la strada principale, arriviamo a Loubeya Street, quella che prima della guerra era il cuore economico di Yarmouk, una strada piena di negozi, di vita e di colori. Oggi di quella vivacità restano solo due botteghe aperte: una che vende sigarette e una che vende frutta e verdura. H. mi dice che nelle prossime settimane dovrebbe aprire un panificio, per permettere ai residenti di acquistare generi alimentari senza doversi allontanare dal campo.
Le difficoltà però restano numerose, a cominciare dall’estrema povertà che rende complicato reperire i fondi necessari per la ricostruzione; a questo si aggiunge la mancanza di servizi essenziali, come l’acqua corrente e l’energia elettrica, che ancora oggi non sono disponibili a Yarmouk.
Da Loubeya Street si arriva alla moschea di Abdel Qadir Al-Husseini. Nel 2012 la moschea fu colpita dai bombardamenti mentre era gremita di persone, che si erano rifugiate lì credendo di essere al sicuro. H. ricorda di essere arrivato sul luogo poco dopo l’attacco, trovandosi davanti uno scenario di devastazione e corpi senza vita. Da quel momento lui e la sua famiglia decisero di abbandonare la propria casa.
L’ingresso è segnato da un grande arco, che espone la bandiera palestinese accanto a quella siriana, simbolo della doppia identità, palestinese e siriana, sentita da molti abitanti. Il campo si estende per circa 3 km e le sue strade portano i nomi di vie esistenti anche in Palestina, questo per ricordare che “loro sono palestinesi”. La strada principale, Yarmouk Street, attraversa quello che era, ed è tuttora, il più grande campo profughi palestinese di tutta la Siria. Sebbene il campo sia quasi del tutto inagibile, la solidarietà verso la Palestina è ancora viva, testimoniata da murales che rimandano ad Al Quds e da volantini in sostegno della popolazione di Gaza, e ogni venerdì gli abitanti scendono in strada per esprimere la loro solidarietà al popolo palestinese sotto assedio.
All’inizio del conflitto, Yarmouk ospitava circa 160.000 persone. Con il tempo, solo una piccola parte rimase, affrontando uno degli assedi più mortali e difficili dell’età moderna. L’occupazione dei jihadisti dell’ISIS nel 2015 seminò terrore e morte. H. racconta di un caro amico ucciso dagli islamisti, perché trovato a portare cibo ai “ribelli”. Ancora oggi, sui muri delle case, si leggono scritte risalenti al periodo dell’occupazione jihadista.
Per decenni, Yarmouk fu considerato un “serbatoio della rivoluzione palestinese”, come lo definisce H. Yasser Arafat era una figura amatissima e Fatah la principale forza politica. Ma dal 2003, con l’ingresso di gruppi salafiti ostili all’OLP, delegittimato da molti palestinesi a seguito della firma degli accordi di Oslo del 1993, la situazione iniziò a cambiare. La distanza del campo dai centri decisionali dell’OLP, unita al crescente sentimento di “tradimento” verso la leadership palestinese, per le promesse di un “ritorno” mai avvenuto, favorirono l’ascesa di Hamas e della Jihad Islamica, con l’appoggio della popolazione e inizialmente anche del governo siriano.
H. mi riferisce che con lo scoppio della guerra in Siria anche i palestinesi di Yarmouk si divisero: da un lato, gruppi come il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina Comando Generale (FPLP-CG), rimasero fedeli al governo siriano; dall’altro, movimenti come Hamas, inizialmente sostenuto da Damasco, divennero in seguito oppositori del governo quando si schierarono a favore dei movimenti della Fratellanza Musulmana, durante la Primavera Araba. La complessità dei gruppi militari all’interno del campo portò a divisioni e lotte intestine: FPLP-CG e Fatah Al-Intifada, insieme ad altre milizie palestinesi lanciarono diverse offensive contro le postazioni dell’ISIS, ma questi gruppi subirono anche diversi attacchi da parte di altre fazioni palestinesi schierate contro il governo di Damasco.
H. racconta che, durante l’occupazione di Yarmouk da parte dell’ISIS, iniziata nel 2015, militanti di Hamas si unirono ad altri gruppi di resistenza presenti nel campo, per contrastare l’avanzata jihadista e cercare di proteggere la popolazione civile dalle atrocità commesse, tra cui decapitazioni, torture e violenze sistematiche. Tuttavia, alcuni disertori provenienti da gruppi palestinesi salafiti, finirono per allearsi con i miliziani dell’ISIS e con il fronte Al-Nusra, che cercava nell’occupazione del campo una via per arrivare a Damasco.
Secondo H., i palestinesi finirono così per diventare parte attiva del conflitto, nonostante il tentativo iniziale di mantenere una posizione di neutralità. Questa scelta, osserva H., non fu ben vista dal governo siriano e dai suoi alleati, contribuendo ad alimentare scontri interni e tensioni tra le diverse fazioni. In quegli anni H. non era più fisicamente presente a Yarmouk, ma ricorda bene quel periodo e l’impossibilità di farvi ritorno.
Durante gli anni della guerra, il campo fu completamente chiuso, sia in entrata che in uscita e le poche famiglie rimaste all’interno si trovarono in una situazione di estrema difficoltà: da un lato, gli attacchi dell’ISIS e l’impossibilità di lasciare le proprie abitazioni, dall’altro, la mancanza di cibo e beni di prima necessità. H. mi racconta che, in quel periodo, le persone arrivarono a nutrirsi con zuppe di erba e cactus, fino a soffrire la fame in modo drammatico.
Ad oggi H. sostiene che all’interno del campo non siano più presenti organizzazioni armate palestinesi e che anche Hayat Tahrir al-Sham non entra a Yarmouk, perché come mi dice: “a nessuno interessa un luogo che non può avere futuro”.
H. mi fa infatti notare come non vi siano persone armate, a differenza della situazione nella città di Damasco, dove la presenza militare di Hayat Tahrir al-Sham è visibile e concreta.
Le organizzazioni politiche palestinesi ancora presenti sul territorio siriano sono invece colpite dalla repressione del governo di HTS: risale infatti ad aprile 2025, appena due giorni dopo il mio ingresso, la notizia, riferita da H. in un messaggio, dell’arresto di due membri della Jihad Islamica, Khaled Khaled e Yasser Al-Zafri, da parte del nuovo governo siriano. Il pretesto, mi spiega, sarebbe stato il presunto legame con l’Iran. Ad oggi entrambi risultano tuttora detenuti. Questi arresti precedono quello avvenuto in data 3 maggio, dove il governo siriano di HTS avrebbe invece arrestato il segretario generale del FPLP-CG e chiuso tutti gli uffici dell’organizzazione politica.
Alla fine di Yarmouk Street, si trova “30 Street”, un viale oggi completamente disabitato, con edifici danneggiati al punto da essere inagibili. Alla vista, si presenta come una città fantasma, dove le uniche forme di vita sono alcuni cani randagi che camminano fra le macerie. Alla fine del viale si raggiunge il vecchio Cimitero dei Martiri (Old Martyrs’ Cemetery), dove sono sepolti leader palestinesi, alcuni dei quali assassinati dal Mossad anche fuori dai confini siriani. Tra questi, Khalil al-Wazir Abu Jihad, cofondatore di Fatah e stretto collaboratore di Yasser Arafat, assassinato a Tunisi nel 1988, e Ahmed Jibril, leader del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina – Comando Generale (FPLP-CG).
Secondo fonti riferite da H., nel cimitero sarebbero stati sepolti anche soldati israeliani uccisi nei conflitti tra Siria e Israele. Dopo che il governo siriano riprese il controllo del campo nel 2018, il cimitero fu interdetto al pubblico e sorvegliato da forze russe. Furono condotte ricerche per il recupero di resti israeliani, ma non è noto se siano stati effettivamente trovati.
Con la caduta del governo di Assad nel dicembre 2024, il cimitero è tornato accessibile: ciò che si presenta agli occhi è un campo devastato, tombe divelte, molte delle quali distrutte. Solo alcune, come quella di Abu Jihad, sono state ricostruite o restano integre. In questa parte del campo non vi sono uomini a lavorare perché probabilmente nulla potrà essere ricostruito.
Chiedo a H. chi abbia offerto il maggiore aiuto dopo la guerra: mi risponde che, sebbene alcune organizzazioni benefiche siano intervenute, sono stati soprattutto gli stessi palestinesi di Yarmouk ad aiutarsi tra loro. «Alla fine», aggiunge con amarezza, «tutti ci hanno dimenticati».
H. non tornerebbe a vivere a Yarmouk, ormai, mi dice, le sue abitudini, i suoi studi e il suo lavoro sono a Damasco, nel quartiere di Jaramana, recentemente teatro di scontri, il 30 aprile, tra le forze di Hayat Tahrir al-Sham (HTS) e le forze druse locali.
Pur evitando giudizi espliciti sul nuovo governo, H. lascia trapelare il suo pensiero con una frase semplice ma incisiva: «Non ci siamo ribellati per avere un governo islamista». Chiedo a H. che futuro possa esserci per il campo di Yarmouk: mi risponde, con tono rassegnato, che “secondo lui sarà molto difficile”, e dopo aver visto con i miei occhi il campo profughi, non posso che condividere il suo pensiero. Il livello di devastazione è tale da rendere quasi impossibile nutrire speranze e, alla luce delle politiche repressive attuate dall’attuale governo nei confronti dei leader palestinesi rimasti in Siria, attendersi un aiuto risulta un pensiero piuttosto improbabile.
La storia come quella di H., però, testimonia anche una resilienza profonda e allo stesso tempo una disillusione che pesa sul futuro. In mezzo alla distruzione, restano le persone, con la loro dignità, a tenere viva l’identità di un luogo e di un popolo che rischia di essere cancellato.