Questo articolo è stato pubblicato il 29 maggio dal quotidiano Il Manifesto

Da piazza Hatufim a Tel Aviv, dopo 600 giorni di offensiva militare a Gaza, le famiglie degli ostaggi israeliani, hanno lanciato un messaggio inequivocabile a Benyamin Netanyahu e ai suoi ministri: «Basta con le bugie, non date altri nomi alla guerra, ponete fine alla guerra. Riportate tutti indietro, ora». Senza un’iniziativa politica, hanno aggiunto, «l’azione militare non ha senso. Le guerre finiscono sempre con un accordo diplomatico, a meno che il piano non sia una guerra eterna».

Ma è proprio quella, la guerra eterna, l’idea che hanno in mente il premier e i suoi compagni di governo, che celebrano la decisione presa il 5 maggio di rioccupare Gaza. La ricostruzione delle colonie ebraiche nella Striscia, smantellate vent’anni fa, è la logica conseguenza di quella decisione. L’offensiva coloniale prevede anche, riferiva ieri il quotidiano Yediot Ahronot, la nascita – approvata segretamente dal gabinetto di sicurezza due settimane fa – di altri 22 insediamenti in Cisgiordania.

Il controllo di gran parte del territorio di Gaza – il 75%, ha detto Netanyahu – è l’obiettivo più importante di Israele, assieme all’«emigrazione volontaria» di gran parte della popolazione palestinese. In questi giorni i palestinesi di Gaza sono spinti verso sud e resi completamente dipendenti dai pacchi alimentari che riceveranno dalla GHF, la fondazione sorta per contribuire a realizzare il progetto del governo Netanyahu, sostenuto dall’Amministrazione Trump.

Zvi Barel, analista del giornale Haaretz, ha offerto una visione di ciò che potrebbe accadere: «Gli uomini israeliani in età da combattimento inizieranno una routine indossando le uniformi per sei mesi… Per gli imprenditori israeliani, soprattutto quelli che vendono cibo o tende, si aprirà una finestra di opportunità con due milioni (i palestinesi di Gaza, ndr) di nuovi clienti».

Uri Goren, cugino del rapito Tal Haimi, ha ribadito una verità evidente: «Siamo tutti convinti che la continuazione della guerra non riporterà indietro gli ostaggi». Decine di manifestanti israeliani hanno provato a renderlo più chiaro facendo irruzione a inizio settimana nella sede del partito di maggioranza Likud a Tel Aviv. Hanno anche raggiunto l’ufficio di Netanyahu, situato nello stesso edificio.

Il premier però non ascolta, va avanti per la sua strada e soddisfa i suoi desideri e quelli dei ministri di estrema destra e dei leader del movimento dei coloni. Ai vertici delle forze armate, intanto, si nutrono forti dubbi sulla sostenibilità dell’occupazione permanente di Gaza. Impadronirsi di un territorio con oltre due milioni di palestinesi richiederebbe un significativo aumento delle risorse per l’esercito. Migliaia di riservisti dovranno essere richiamati sempre più spesso – già oggi ben oltre la metà dei riservisti ha superato i 100 giorni di servizio in venti mesi – per proteggere i coloni e combattere la resistenza armata di Hamas e di altre formazioni palestinesi.

Gaza potrebbe diventare il Vietnam di Israele che, dopo il 7 ottobre 2023, nonostante la sua superiorità militare, ha perduto in combattimento nella Striscia più di 400 soldati. L’esercito afferma di aver ucciso circa 20.000 combattenti palestinesi sino ad oggi, ma ammette che ne rimangono decine di migliaia. Senza dimenticare l’impegno di forze militari nella Cisgiordania occupata e a ridosso (e dentro) il Libano del Sud, a cui si aggiunge l’impiego incessante dei piloti militari in missioni su più fronti. E Netanyahu non rinuncia all’idea di attaccare, forse nelle prossime settimane, anche l’Iran.

Il fervore ideologico e religioso è il motore dell’azione di governo; la realtà economica di Israele, invece, è un fattore che potrebbe rovinare i piani di Netanyahu. Venti mesi di guerra sono già costati molto alle casse dello Stato, nonostante l’aiuto militare e finanziario degli Stati Uniti. Dopo 600 giorni, scrive la rivista economica Calcalist, il costo dell’offensiva militare, unito a quello dei risarcimenti e degli aiuti ai civili (come gli sfollati), è salito a più di 142 miliardi di shekel (circa 35 miliardi di euro), aggravando il deficit pubblico.

Previsioni di crescita e di spesa, spiegano diversi economisti, dovranno essere riviste a causa del prolungamento di una guerra che molti ritenevano conclusa dopo il cessate il fuoco in Libano a fine novembre e a Gaza lo scorso gennaio. Martedì il governatore della Banca di Israele, Amir Yaron, ha spiegato che altri sei mesi di offensiva a Gaza ridurrebbero la crescita economica di mezzo punto nel 2025. Peserebbe inoltre sulla crescita del rapporto tra debito pubblico e Pil anche il richiamo in servizio di decine di migliaia di riservisti.

Il revisore dei conti, Yali Rothenberg, avverte che la spesa militare rischia di ridurre drasticamente quella per le spese civili, come istruzione, sanità, assistenza sociale e infrastrutture.